“Cammina pure sulla mia terra, ma fallo dolcemente perché potresti calpestare i miei sogni.”. Mi piace pensare a Franco Lepore in questo modo. Mi piace pensare a “Checco” come ad un ragazzo impegnato ad inseguire gli stessi sogni di quando era bambino. Anche se adesso ha quasi 27 anni. Anche se adesso uno spicchio bello e importante di carriera, se l'è già messo dietro le spalle.

Anche se adesso tra lui e i sogni da raggiungere spesso c'è di mezzo un fossato.

“Sto vivendo un periodo poco felice dal punto di vista personale, ma ho ben chiaro che gli aspetti significativi di questo affascinante mestiere sono altri: il bene e i risultati ottenuti dalla squadra, il lavoro globale, l'aver buone relazioni con i compagni, col mister e con tutte le persone che fanno parte dello staff. Per fortuna queste cose al Varese non mi mancano, lavoro e mi alleno sempre in modo eccellente ed i complimenti che mister Maran spesso mi rivolge, l'attenzione che nutre nei miei confronti, mi gratificano facendomi capire che sto percorrendo la strada giusta e che, di questo passo, le occasioni arriveranno”.

Com'è successo, tanto per restare in tema, venerdì scorso a Padova.

“La chiamata di Maran, che mi ha buttato in campo nel secondo tempo, mi ha fatto piacere ed è stata la semplice conferma di quello che dicevo prima: se lavori con impegno, se il tuo atteggiamento è sempre professionalmente ineccepibile, se ti dai da fare per il gruppo prima o poi sarai premiato. Il mio obiettivo, per usare una frase abusata, è quello di mettere in difficoltà l'allenatore al momento delle scelte. A lui spettano le decisioni e, ne siamo tutti consapevoli, con una rosa così ampia, che offre tanta qualità, non è facile scegliere, ma durante la settimana Maran regala attenzione a tutti e sa che può contare su di me. Il mio compito, poi, sarà solo quello di farmi trovare pronto. In questo senso a Padova è andata abbastanza bene, la squadra si è comportata in modo adeguato e, forse, dietro a quel pareggio c'è anche un pizzico di rammarico per in risultato che avrebbe potuto essere ancora più soddisfacente”.

Scorrendo velocemente la tua carriera si può dire che non sei nato col cucchiaio d'argento in bocca.

“Né cucchiaio, né vizi, perché la mia vita da calciatore me lo sono sudata per intero. A cominciare da quando, nelle giovanili del “Lecce miracoloso”, quello dei Bojnov, Pellè, Camisa, Marilungo, non trovai spazio perché Corvino, allora d.s. della società giallorossa, era fissato coi giocatori grandi e grossi. Per me, che ero talentuoso, ma piccolo di statura e con poco fisico, le porte rimasero chiuse. Ma la voglia di diventare calciatore, più forte di tutto, aprì anche i portoni: prima a Copertino in Eccellenza e poi col primo trasferimento al Nord: Castelfranco Emilia, in serie D. Professionismo, ovviamente, zero, quindi di giorno levatacce per andare in fabbrica, 8 ore ad assemblare materie plastiche, poi la sera sul campo. Il tutto lontano 1000 chilometri da casa tua. Non è stato facile, né semplice, uscire da lì, anche se devo riconoscenza ai dirigenti emiliani che mi trattarono nel miglior modo possibile”.

Come passi il tuo tempo da “privilegiati” lontano dal campo?

“Cose semplici: riposo, film in TV, un po' di playstation e appena posso corro a Palazzolo per stare con la mia famiglia: dalla mia compagna Claudia e da mia figlia Aurora, 2 anni e una gioia infinita ogni volta che posso abbracciarla”. 

Tornando al calcio, sabato a Masnago arriva la Reggina: playoff sempre più nel mirino?

“No, nel mirino teniamo solo il match contro la squadra calabrese. Nulla di più. Da qui alla fine sarà fondamentale restare concentrati al mille per cento sulla singola gara perché, appena abbassi la guardia sotto il profilo mentale, rischi di incappare in gravi scivoloni: vedi la partita persa contro Empoli. Quindi, attenti e carichi come non mai perché contro la Reggina non possiamo proprio sbagliare”.

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