Proustianamente Fabrizio Frates, coach della Cimberio, è un allenatore alla “Ricerca dello scudetto perduto”. Dopo 25 anni su piazza, e quasi 700 panchine nella massima serie, Fabrizio è ancora alla pervicace ed ostinata ricerca di quel maledetto triangolino tricolore. Di quel pezzo di stoffa verdebiancorosso che, vi piaccia o meno, da sempre segna il confine tra i campioni e quelli “solo” grandi.
“Nel corso del mio lungo e variegato cammino tecnico ho avuto la fortuna di allenare in tante situazioni passando da club grandi e prestigiosi ad altri più piccoli e, se mi passi il termine, a conduzione familiare. Ho allenato in tutte le competizioni italiane ed europee, messo via esperienze favolose con la maglia della Nazionale e vinto parecchio. Campionati a tutti i livelli transitando dalle categorie giovanili, alle Coppe Europee, alla serie A2. Ovvio, quindi, che la conquista della scudetto, è il titolo che mi manca di più. Quello che rappresenta la mia dolce ossessione. Del tutto normale -dice Frates-, avere occhi solo per un obiettivo che coronerebbe, completandola nella maniera perfetta, la mia carriera. Pensavo, speravo di poterlo raggiungere andando a Milano ma, ahimé, è andata male pure lì”.
Perché, nell’eventualità, a Milano, da assistente di Scariolo, avrebbe avuto lo stesso valore?
“Per me sì e per come sono strutturati oggigiorno gli staff tecnici, con un lavoro stratificato organizzato da più persone, avrebbe avuto uguale importanza. Chiaro: non la stessa che spetta e viene giustamente attribuita al Capo Allenatore, ma qualcosa di molto vicino. Evidentemente -commenta con filosofia Frates-, il destino per me non ha previsto possibili scorciatoie o soluzioni di comodo. Lo ‘scudo’, se mai arriverà, dovrà essere solo sudore della mia fronte”.
In una carriera abbastanza “girovagata” (Cantù, Treviso, Arese, Montecatini, Gorizia, Siena, Udine, Reggio Emilia, Bologna Fortitudo, Caserta, Montegranaro, Milano), quali flash vorresti raccontare?
“Quanti flash?”
Non più di tre o quattro…
“Allora, senza dubbi di sorta, partirei dagli ‘scudettini’ giovanili vinti con l’Endas Edera Milano. Per due stagioni, all’inizio degli anni ’80, vincemmo gli scudetti Allievi e Cadetti superando tutte le grandi potenze del basket italiano. Un’impresa che rimarrà, pietrificata, nella storia della nostra pallacanestro perché per due anni consecutivi una formazione che era espressione di un quartiere di Milano, segnatamente Città Studi, piantava le sue bandierine sulla vetta. Devo anche dire che, da allenatore, non ho mai più provato una gioia così grande e così pura perché vincere coi ragazzini mette in moto emozioni uniche, completamente diverse da quelle, pur belle, che si possono assaporare vincendo con gli uomini”.
Che ne è stato di quel gruppo?
“A parte Massimo Sorrentino, l’unico arrivato in serie A, il solo che allora dispensava classe talento a piene mani, gli altri hanno avuto normali percorsi nei dilettanti ma, aspetto che mi rende orgoglioso, tutti si sono affermati nei rispettivi campi lavorativi e, oggi, sono diventati ottimi professionisti. A dimostrazione che lo sport aiuta a costruire un’autodisciplina, poi importante in tutti gli aspetti della vita. Quando, periodicamente, ci si ritrova per ricordare quelle stagioni indimenticabili, è sempre una festa fatta di vera amicizia, stima, rispetto, grande complicità”.
Secondo flash?
“La stagione 1994-1995 con Arese: assolutamente fantastica perché assolutamente, totalmente imprevedibile. Devi pensare che alle 11:00 del 7 luglio 1994, un’ora prima della chiusura delle liste -allora non c’era, come oggi, il mercato sempre aperto- avevamo in casa un solo giocatore. In sessanta minuti, racimolando gli scarti delle altre squadre e i giocatori rimasti senza collocazione riusciamo a metterne insieme altri otto. Poi, abbiamo inserito gli americani. Nessuno poteva immaginare che da quel guazzabuglio, nato senza nessuna programmazione, potesse scaturire una squadra brillante, vincente, composta da uomini, prima che da giocatori, di straordinarie qualità. Tra lo stupore generale vincemmo la serie A2 e ogni volta che ci ripenso non posso fare a meno di esclamare: ‘Incredibile!’”
Terzo flash?
“Stagioni ’96-’98, in panchina a Gorizia, in serie A2. Il primo anno perdemmo la finalissima contro Reggio Emilia. L’anno successivo ci rifacemmo battendo Trieste. Bella esperienza perché allenavo un nucleo di giocatori molto esperti, consapevoli, motivati, animati da inesauribile voglia di vincere. Bella perché da questi uomini ho imparato molto”.
Ultimo flash?
“Ultimo in ordine cronologico, ma probabilmente, per il suo prestigio ed importanza, primo nella memoria. Sto parlando della finale delle Olimpiadi di Atene 2004 contro l’Argentina. Nel merito non basterebbero un paio di volumi per descrivere quella meravigliosa avventura. Ti basti questa considerazione: penso che ogni appassionato di sport pagherebbe di tasca sua per poter vivere solo un’ora di quei momenti. Figurati che significato può avere per me, per noi, che siamo arrivati all’epilogo conclusivo, salendo addirittura sul podio. Roba di brividi”.
A questo punto se non ti costa troppa faticati chiedo il quintetto della ragione e quello del cuore
“Quello della ragione: Marzorati, Riva, Pittis, Addison, Benson. Quello del cuore: Mc Intyre, Michele Mian, Mannion, Jeff Turner, Cantarello”.
Spiegazioni, adesso, per quello del cuore
“Premessa generale: i giocatori di questo quintetto hanno un denominatore comune. Tutti possedevano un naturale altruismo, un’innata generosità, ovvero la capacità di mettere le esigenze della squadra davanti a quelle personali. Nei loro pensieri, prima di tutto, veniva sempre il gruppo. Poi, nelle pieghe della partita, ognuno di loro, se necessario aveva talento e qualità per mettere insieme giocate determinanti e, appunto, ad ognuno devo i ringraziamenti per tante vittorie. Vale la pena di ricordare, per tutti, il 10/10 da 3 punti realizzato da Mc Intyre a Bologna contro la Virtus o l’incredibile rimonta, da -17 , firmata da Pace Mannion in Coppa Korac in casa contro il Real Madrid”.
Argomento giocatori: perché gira la noema che con loro sei sempre “incazzoso”?
“Incazzoso, perdonami, non è il termine giusto. Lo sostituirei con esigente. Molto esigente. Non sono così rigido da non capire che un giocatore può avere delle lacune e credo di saper distinguere la natura degli errori commessi dai giocatori. Detto questo, mi piacciono i giocatori che partecipano al lavoro che si sviluppa in palestra, mi piacciono quelli che entrano dentro, anima e corpo, nel progetto, che danno qualcosa in termini tecnici, tattici, ma soprattutto emotivi. Che sono capaci, come dicevo prima di restituire qualcosa alla squadra, ai compagni, allo staff, vogliosi di vivere, gioire, soffrire, esaltarsi e deprimersi insieme al gruppo. Quelli che non si fanno calare tutto dall’alto e in palestra sono persone vive, non degli ‘yesman’ che si limitano ad eseguire un compitino. Come cantava Giorgio Gaber: ‘Libertà non è star sopra un albero. Libertà e partecipazione’. Ecco, dai giocatori, io voglio quello. E allora sì che mi fanno incazzare quelli che assumono comportamenti da ‘ameba’”.
A Varese come stiamo ad ‘amebe’?
“Bene, nel senso che, per fortuna, non ce ne sono. Anzi, tutti i ragazzi ci danno, partecipano con grande spirito e motivazioni. Io per primo che da ex-canturino e ex-milanese vengo guardato con un pizzico di ingiustificato sospetto. Però, mi consolo pensando che a Cantù, dove sono stato tanti anni e ho vinto qualcosina, mi identificano in milanese. A Milano mi fotografano come varesino, mentre di Varese, ho già detto. Per questa ragione, domenica, voglio, vogliamo battere Avellino. Non sarebbe male per la classifica e per togliersi in fretta dalla spalla la scimmia dei cosiddetti ‘Indimenticabili’…”.

Massimo Turconi