Paleontologi, studiosi dell’evoluzione umana e antropologi affermano che veniamo tutti dalla “Grande Madre Africa” e siamo destinati ad abitare il mondo. Kuba Diawara è già riuscito nell’impresa di essere cittadino del mondo. Di tanto mondo.
Case a Parigi, Zurigo, Miami, Los Angeles. Solide amicizie ovunque che spaziano ovunque: Italia e Spagna, ovviamente, passando poi per lo Sri Lanka, le alture di Denver, le praterie dell’Idaho e tanta altra geografia. Merito, o meglio, pregio di un uomo solare, sempre con pensieri positivi, sempre disposto a regalare un sorriso a chi lo circonda.
«Il merito -si affretta a spiegare Diawara-, è tutto di mia madre Bintou che nonostante le ristrettezze economiche, la tremenda fatica di vivere belle “banlieue” parigine da immigrata dal Senegal, le enormi difficoltà nel tirar grandi quattro figli, non ha mai perso la voglia di sorridere e di pensare alla vita come ad un fantastico dono. Mamma ha sempre trasmesso felicità a tutta la nostra famiglia: alle mie sorelle Kankou e Fatoumata e a mio fratello Sourakhata. Aggiungendo un grandissimo insegnamento: l’umiltà di saper accettare e apprezzare anche le più piccole cose».Openjobmetis Varese-Reggio Emilia. Diawara dedica al pubblico

Sei nato e cresciuto a Tremblay, uno dei più degradati quartieri della periferia parigina, ma sei anche l’esempio più bello che da posti non esattamente entusiasmanti è possibile uscirne…
«Nel mio quartiere, quando ero ragazzino -ma anche oggi le cose non sono cambiate granché-, potevi scegliere solo due strade: quella buona o quella “mala” (Kuba usa il termine spagnolo…), fatta di droga, malavita, gang di strada, violenza. Io grazie all’educazione impartitami dai miei genitori, all’attenzione costante di mia madre e allo sport -pallacanestro, calcio- ho avuto la fortuna di poter imboccare la seconda. A 15 anni, già “fisicato e bravino”, ho avuto l’opportunità di trasferirmi a Digione per giocare nelle giovanili, sentire l’odore di prima squadra ma, soprattutto, vivere in un ambiente più sano, sereno e meno problematico. A Digione, club, città, persone, devo molto città perché vi ho trascorso anni fondamentali per la mia crescita umana e cestistica».

Com’è che poi da Digione, luogo magico, sei finito nelle desolate praterie dell’Idaho?
«Per andare a Digione avevo lasciato la scuola ma ‘sta cosa mica mi stava tanto bene perché sapevo che, comunque, avrei dovuto riprendere in mano e darmi una solida preparazione scolastica. Così, a 18 anni, mi sono trasferito a Southern Idaho Junior College, un “Prep” College, per giocare a basket, imparare bene l’inglese e prepararmi al meglio per affrontare il salto in un’università di Prima Divisione. Cosa che puntualmente avvenne un paio d’anni dopo, ma in un ambiente completamente diverso visto dopo aver avuto offerte accademiche da diverse università scelsi Pepperdine University passando da fattorie, prati sterminati e montagne a spiagge, sole e oceano della California. Dopo essermi laureato in “Business” sono tornato in Europa per cominciare la vera carriera da “Pro Basketball”: Digione, Fortitudo Bologna per una finale scudetto persa contro Treviso e una ventina di partite in Eurolega».

L’Eurolega ti lanciò verso la NBA
«Andai bene in un paio di Summer League e i Denver Nuggets, nel luglio del 2006, mi chiamarono proponendomi un contratto. Da quel punto in poi ho vissuto le quattro stagioni più belle e più “sognanti” della mia vita: 186 partite giocate, 56 delle quali in quintetto, tra Denver e Miami, 655 punti segnati in 2614 minuti. Ma al di là dei numeri prevale sempre la sensazione fantastica, che non ha paragoni, di giocare nella Lega che è di gran lunga la migliore del mondo, con i giocatori che sono, anche loro di gran lunga, i numeri uno al mondo. Quando sento dire che l’NBA è solo un grande show, solo uno spettacolo bellissimo dentro rispondo che in questa affermazioni c’è del vero ma poi, finiti gli aspetti commerciali e i lustrini, sul campo restano i giocatori e, credimi, di meglio in giro non c’è. Quindi, non puoi nemmeno immaginare la squassante emozione quando, al primo giorno di raduno, mi ritrovai al fianco del mio idolo Allen Iverson, giocatore che allora mi faceva letteralmente impazzire per il suo smisurato talento, di Carmelo Anthony, altro “giocatorino” mica da poco. Poi, agli Heat, Dwayne Wade, Shawn Marion, Jermaine O’Neal. Insomma: giusto per usare un’espressione abusata, entrando e giocando in NBA, avevo realizzato il mio sogno di ragazzo».

Così, tanto per riferire, insieme a Kuba c’erano anche volti noti: Julius Hodge (sì, proprio quel Hodge…), Kleiza, adesso a Milano, Boykins, visto a Bologna, e diversi altri…
Perché sei tornato in Europa?
«Semplice: dopo tre d’anni, due ai Nuggets ed il primo agli Heat, nei quali avevo giocato tanto (181 gare), il quarto a Miami tutto si era ridotto, ero uscito dalle rotazioni (solo 6 presenze) ed avevo capito che per me la favola era finita, mentre io volevo giocare e dentro avevo una voglia pazzesca di tornare ad essere di nuovo protagonista».
Openjobmetis Varese-Reggio Emilia. Diawara atterra dopo la schiacciata
Quindi, per tutte queste ragioni, torni in Europa per la tua quarta vita da giocatore: Brindisi, Varese, Venezia, Gravelines e ancora Varese.

«Tutte tappe interessanti. Ovvio: qualcuna meglio di altre, ma in generale non sono uno che guarda troppo al passato e sinteticamente ti dico: Brindisi e Venezia più male che bene perché a Brindisi siamo retrocessi, mentre a Venezia siamo stati certamente sotto le aspettative. Poi, Gravelines, un’annata così così e, nel mezzo, Varese con una stagione, quella 2011-2012 più che positiva e quella attuale che deve ancora prendere la giusta forma».

Giusta forma: perché?
«Forse perché il bell’inizio ci ha un po’ illuso facendoci pensare che sarebbe stato tutto facile. Invece, infortuni, assenze, nostri errori e gare oggettivamente sfortunate ci sono costate sei sconfitte di fila».

Stato d’animo nel periodo?
«Non sono mai stato preoccupato se è questo che vuoi sapere. Non lo sono mai stato perché in tutte le circostanze ho visto la mia squadra giocare bene. Certo, non per tutti i quaranta minuti, senza l’intensità mentale necessaria per tutta la partita -questo è il nostro vero problema-, ma piuttosto bene. Contro Venezia? Più dieci a tre minuti dal termine. Contro Trento e Roma? Quasi più venti alla fine del primo tempo. Contro Milano? Gara persa solo all’ultima tripla. Quando giochi partite simili non puoi che essere fiducioso perché “base”, gioco di squadra, atmosfera, spogliatoio ci sono ed il mio avere fiducia non è un atteggiamento scioccamente ottimista. Per questi motivi dico che come ne abbiamo perse sei, ne possiamo vincere anche sette di fila. A patto di fare e dare di più, giocare meglio insieme sui due lati del campo, in particolare in difesa, e avere un pizzico di fortuna. Com’è successo a Brindisi».

Kuba, uomo determinato, sa quello che dice perché la sua fortuna se l’è sudata. Kuba, uomo ricco in denaro (i contratti NBA gli hanno fruttato circa 3 milioni di dollari, quelli in Europa sono sempre stati da top-player), ma soprattutto ricco in affetti -la moglie Claudia, le figlie Ariana e Alexia, la sua “famigliola” a Parigi-, è apprezzato dal pubblico di Masnago perché ricco in generosità e disponibilità.
«Vivo per il pubblico e in NBA ho capito una lezione importantissima: noi giocatori, senza il pubblico, senza i tifosi non siamo nulla. Per questo cerco e voglio dare tutto me stesso ai tifosi sul parquet quando si gioca. E fuori dal campo, quando loro mi cercano per un autografo per firmare una maglietta, un pallone o fare un “selfie”. A me non costa nulla e con gesti che mi impegnano poco so di poter regalare un sorriso alla gente che, ripeto, paga il biglietto, spesso fa anche sacrifici, si priva di qualcosa pur di vederci e fare il tifo per noi e per Varese. Per tutto ciò non capisco i miei colleghi che per il solo fatto di essere giocatori professionisti fanno i “fenomeni”, i preziosi o addirittura si negano ergendosi su piedistallo di cartapesta».

OK, il messaggio dovrebbe essere arrivato a tutte le persone di “buona volontà”. Chiudiamo con le tue previsioni per il match contro Bologna?
«Ottima squadra, che ha carattere, non molla mai e ci darà tantissimo fastidio. Ma noi dobbiamo ricominciare a vincere a Masnago. Dobbiamo. Per la nostra gente, per la classifica, per noi».

Massimo Turconi