Il Giro d’Italia è finito da poco meno di una settimana. Eppure tutti gli appassionati hanno negli occhi le bellissime immagini di uno sport che ancora sa far emozionare. Lo scenario del Bel Paese, non è altro che la classica ciliegina sulla torta di tre settimane di entusiasmo trascorse sulle due ruote. Sensazioni che solo pochi sanno percepire.
Tra questi, sicuramente, i diretti protagonisti come Eugenio Alafaci. Nato il 9 agosto del 1990, il carnaghese è stato uno dei “nostri” rappresentanti al Giro, terminando, alla sua prima partecipazione, in 151ª posizione a 4 ore, 42 minuti e 20 secondi da “Naironman” Quintana.
“È stata un’esperienza unica che non dimenticherò mai -racconta il corridore della Trek Factory Racing-. La cosa più bella e che porterò per sempre con me, però, è stata il pubblico. In Irlanda ma, soprattutto, in Italia, siamo stati seguiti con una passione talmente intensa che mi ha fatto emozionare. Donne, uomini, anziani, bambini; tutti riuniti all’insegna del ciclismo. Grazie al loro calore siamo riusciti ad affrontare anche le tappe più dure come lo Zoncolan”.
Eppure c’è chi si è lamentato che a volte, questo entusiasmo del pubblico, sia diventato molesto (vedi Bongiorno in occasione della 20esima tappa).
“Alzare una polemica su questa cosa mi sembra esagerato. Ritengo che in quell’occasione si sia trattato solo di un semplice incidente. È vero, a volte i tifosi esagerano, ma lo fanno non di certo per intralciare; semmai per trasmetterci grinta ed entusiasmo. Non dimentichiamoci che senza i tifosi il Giro, così come qualsiasi altra corsa, non sarebbe così magico”.
Quest’anno sarà ricordato per il trionfo della Colombia. Quintana primo, secondo Uran. Cosa è cambiato in questi anni?
“Una volta il ciclismo era ‘affare’ prevalentemente europeo, è vero. Ora, però, stiamo assistendo ad un momento di globalizzazione che non riguarda solo il nostro sport ma, in generale, tutti il mondo. Ecco spiegato il loro successo. Quintana, Uran ma anche il mio compagno di squadra Arredondo, possono contare su caratteristiche fisiche che permettono loro di arrivare davanti a tutti. Sono piccoli e leggeri, peculiarità che in salita fanno realmente la differenza”.
Nel mezzo la bella favola di Fabio Aru, che ha riportato alla mente i grandi ciclisti che hanno fatto la storia dell’Italia nel mondo.
“Io e Fabio siamo amici fin da giovani. Abbiamo un bellissimo rapporto e sono estremamente felice che sia riuscito a fare ciò che ha fatto. Se lo merita, perché si è preparato con tanta intensità facendo enormi sacrifici e rinunciando all’affetto e al rapporto con amici e genitori. E per un sardo, fortemente attaccato alla sua terra e alle sue origini, non è così scontato. Sono convinto che se continuerà così riuscirà a vincerlo il Giro”.
E Alafaci? Lo vincerà mai?
“Non credo proprio -sorride-. Non perché non sia il mio sogno, ma perché ho ben altre caratteristiche. Credo che mi potrò ‘accontentare’ di avere la meglio in qualche classica del nord. Questo è il mio sogno. L’esperienza del Giro, è stata molto utile; sento di essere cambiato in meglio sia mentalmente che fisicamente. E lo dimostrerò già dalle prossime gare”.
Marco Gandini