Bar del Campus. Prima di cominciare l’intervista piazzo nelle mani di Gianmarco Pozzecco alcuni articoli e riviste, d’epoca e attuali. Il Poz, un po’ sorpreso, iniziare a sfogliare avidamente. Le tante foto e le migliaia di parole scorrono via in fretta fissando nella sua mente immagini, ricordi e vivissime sensazioni del suo straordinario passato. Poi, quasi di scatto, Gianmarco allunga un’interminabile sguardo alla finestra. Ha gli occhi lucidi e nonostante ci provi, non riesce a fermare le lacrime. Questa, in fondo, è l’istantanea dell’uomo-Pozzecco che mi porterò dentro per sempre. Il fotogramma di un uomo che, per fortuna ce ne sono ancora, vive tutto (emozioni, rabbia, disappunto, gioia, delusioni, disincanto, furore), con la naturale purezza di un bambino. Senza barriere. Senza inutili, e finte, sovrastrutture mentali.
“In questi primi mesi trascorsi sulla panchina di Varese -riflette Pozzecco-, ho vissuto sensazioni e provato emozioni clamorose che, sono sincero, non avrei mai pensato di vivere e provare. Stati d’animo che, l’ho già dichiarato in diverse occasioni, solo il tornare in questa città poteva regalarmi”.

E, perdona la domanda banalissima, come è allenare?

“In generale credo sia una professione bella, ma difficile. Poi, fatta a Varese diventa addirittura favolosa ma complicatissima. Ma, se vuoi, la ‘colpa’ è mia perché immaginavo, anzi, già sapevo che essere coach della Pallacanestro Varese non poteva essere una cosa normale, perché sedersi su questa panchina significa allenare una squadra, ma principalmente mettersi fieramente e orgogliosamente di fronte ad un popolo che mi ha sempre voluto bene, mi ha amato alla follia quando ero giocatore e mi ha sostenuto fin dal primo minuto della mia nomina a coach. Del tutto naturale che io mi senta in debito verso questa gente, verso la società, verso una città che mi considera parte del tessuto. Del tutto normale, quindi, il mio fortissimo senso di responsabilità, il mio grandissimo desiderio di restituire qualcosa di bello e importante. Dico la verità, se fallissi a Masnago non potrei mai e poi mai perdonarmelo”.

Come recita una famosa battuta: a perdonarti ci penserà qualcun altro che lo fa per mestiere. Intanto, però, la frase più gettonata nel basket italiano è: “effetto Pozzecco”. Che ne pensi?
“Cavolo, penso che ‘sta roba dell’effetto Poz è proprio vera. Me ne sono accorto fin dalle prime amichevoli giocate con l’Openjobmetis la scorsa estate. C’era sempre un sacco di gente, anche tantissimi tifosi avversari, che, come da giocatore, chiedeva autografi, ‘selfie’, un saluto, un abbraccio, una firma sulla maglietta, sul pallone. Insomma: un casino mai visto e tutti erano lì per me. Mica, come sarebbe stato normale e giusto, per vedere Robison, Kuba, Daniel o gli altri miei giocatori. A quel punto, con un pizzico di preoccupazione, mi sono detto: Coppa e Vescovi, forse, hanno creato un ‘mostro’, qualcosa che sta sfuggendo al loro controllo. Qualcosa che si chiama ‘sovraesposizione’ e, ogni tanto ci rifletto, probabilmente sta creando qualche problema anche ai miei uomini perché anche adesso gioco fuori dal campo non dimentico che i veri protagonisti, anzi, gli unici protagonisti, sono, dovrebbero essere, quelli che ci giocano dentro”.Openjobmetis Varese-Acqua Vitasnella Cantù. Lo show di Gianmarco Pozzecco

Dai un’occhiata a questo giornale di otto anni fa. C’è un articolo che ti riguarda il cui titolo è: “Vado a Mosca per fare la Rivoluzione”.
“Fa vedere -mi dice Gianmarco che dopo aver letto avidamente replica: una delle tante puttanate che ho detto nel corso degli anni. In realtà la capitale russa è troppo grande, troppo importante, troppo piena di personaggi famosi in tanti campi per accorgersi di uno come me. Da giocatore ci sono stato bene, c’è stata una buona sinergia e sono stato trattato divinamente, ma i russi hanno un modo di intendere il basket e le cose della vita decisamente distante dal mio e, dammi retta, questa pagina la chiudiamo qui che è meglio”.

La Rivoluzione qui a Varese ti è già riuscita due volte e questa in atto, la seconda, è anche meglio della prima
“Ma certo che è così perché, dai, fare le rivoluzioni a casa tua è più facile. Qui ero già stato otto anni, i più importanti, belli, significativi della mia vita. Con i miei concittadini c’è intesa spontanea, ci capiamo con uno sguardo, c’è intimità e mi sento come se avessi in tasca le chiavi di casa di ognuno di loro. Però, ripeto, non pensavo potesse scatenarsi una cosa così grossa”.

Facciamo un passo indietro: prima giocatore-personaggio-idolo della folla. Oggi allenatore. Come ti è venuta in mente ‘sta cosa?
“L’idea è maturata pian piano e quello che hai scritto qualche giorno fa nell’intervista con Charlie Recalcati è tutto vero: è stato lui che ha insistito, pure tanto, perché mi iscrivessi al Corso Allenatori Nazionali. E’ stato Carlo che, facendomi ragionare, una cosa mica semplice, mi ha convinto a rinunciare a tre settimane di vacanze a casa mia a Formentera, andare a Bormio e prendere questa benedetta tessera di allenatore. Anche per questa ragione, oltre alle mille già esistenti, devo a Carlo qualcosa più del semplice affetto. Il Saggio Recalcati mi ha fatto capire che questo è comunque il mio mondo. Quella del basket è la mia gente, la mia casa, il mio linguaggio, la mia teoria di volti conosciuti, di consuetudini, abitudini, modi di pensare e di vivere. Certo, poi anche in questo microcosmo, pure io dovevo trovare la strada giusta. All’inizio del percorso Ragnolini e Schiavi, che ringrazio di cuore per aver pensato a me, due anni fa mi avevano proposto di allenare la Selezione Regionale Lombarda degli Under 14 ma, in tutta sincerità, non credo di essere un allenatore adatto alle categorie giovanili. Nel frattempo era arrivata anche la proposta di Capo d’Orlando e, a quel punto, mi si poneva per la prima volta il vero dilemma: che faccio, mi butto o no in questo mestiere?”.

Risposta?
“Per dirla con noti termini cinematografici quella siciliana era una proposta che non potevo rifiutare perché Beppe Sindoni, presidente dell’Orlandina, è come se fosse mio fratello e Capo d’Orlando, della quale conosco uno per uno tutti i suoi 13.000 abitanti, è un’altra città che considero casa mia. Potevo mai dire di no?”.

Bene, addirittura benissimo sull’isola ed ora a Varese: l’impressione è che tu ti sia preso una bella gatta da pelare…
“La mia vita è sempre stata scandita da scelte giocate sull’onda dell’emozione. Così sono convinto che l’aver scelto di allenare a Varese, al di là dei risultati del momento, sia stata la cosa più bella che mia sia capitata nella seconda parte della vita e, come hanno notato tutti, dopo la vittoria nel derby contro Cantù sentivo che avrei potuto veramente camminare sulle acque. Chiaro, l’atmosfera della serie A, campionato che conosco ‘benino’, è totalmente differente da quello che si respira al piano di sotto, ma la mia volontà era prima di tutto esportare un’idea: ‘Si può allenare in serie A senza rompere sempre il cazzo ai giocatori, ma lavorando e vivendo con serenità insieme a loro?’. La mia risposta ovviamente è ’Sì che si può. Sì che si deve’. Stabilito questo, e avendone ricevuto i primi importanti riscontri, vado avanti per questa strada. I conti, come sempre, si faranno alla fine”.

I tifosi, però, vorrebbero iniziare a “conteggiare” già da domenica sera nel derby contro Milano?
“In questo momento di difficoltà ci serve un successo di quelli fuori pronostico e Milano campione d’Italia, e il derby, e tutto quello che circonda questa gara, sembrano, sono, elementi perfetti per darci la carica emotiva e la spinta interiore per centrare la grande impresa. Che poi -conclude il Poz- è quello di cui tutti abbiamo bisogno, quello che tutti vogliamo”.

Massimo Turconi