C’è un principio di curiosità nel voler intervistare coach Attilio Caja perché dopo tante chiacchierate fatte nel corso degli anni sulla quotidianità, questa è la prima volta che mi addentro nel “personaggio Attilio”.
C’è un principio di “sceneggiatura da film” nel voler conoscere meglio un allenatore che nelle ultime stagioni ha recitato (bene ma suo malgrado) la parte di Mister Wolf in Pulp Fiction. Prima o poi, forse, butto lì un’idea, bisognerà girare un “remake cestistico” con Attilio che, smoking e farfallino, suonando alla porta delle varie società si presenta dicendo: «Sono Attilio Caja, risolvo problemi…».
C’è, infine, un principio di energia nel voler descrivere un tecnico che, proprio partendo da questo elemento -l’energia-, riesce ad imprimere alle sue squadre sferzate di vitalità.
Citati i principi, con Attilio pare dunque inevitabile partire da una domanda obbligatoria: appena arrivato, che situazione hai trovato alla Openjobmetis Varese?
«Un quadro classicamente connotato, già visto in tutte le società in cui sono subentrato ad un collega: squadra smarrita dalle tante sconfitte; giocatori sfiduciati sul piano personale e -risponde tranquillo Caja- ambiente demoralizzato a causa di aspettative e prospettive generalmente disattese. Quindi, estremizzando: niente di nuovo».

Nella logica del “risolvo problemi”, da cosa sei partito per affrontare quelli di Varese?
«Premessa: entrare in corsa, dal mio punto di vista, non significa fare la rivoluzione, cambiare tutto e buttare via quello che è stato fatto nei mesi precedenti. Analogamente quando si subentra non si possono fare discorsi sui massimi sistemi o ripartire da capo. Non ne hai il tempo. Occorre, piuttosto, lavorare molto sui dettagli, sui particolari, su quei piccoli aggiustamenti che possono aiutare immediatamente la squadra. Così, dopo aver raccolto informazioni, aver parlato a lungo con dirigenti, collaboratori dello staff tecnico e Gianmarco Pozzecco ho puntato sulle cose, poche ma essenziali, che in questo momento pensavo potessero essere utili alla squadra per uscire dal guado: valorizzare le cose positive che di solito non mancano e stabilire le priorità di lavoro».

Parlando di queste ultime quali, dunque, quelle per Kuba e compagni?Attilio Caja ed Andy Rautins
«Attacco: in questo periodo dell’anno, in questa situazione e con poco tempo a disposizione, ho proposto alla squadra due traguardi più concreti e più facili da raggiungere: migliorare la velocità e l’aggressività del gioco. Pertanto, più corsa, ricerca costante del contropiede, delle soluzioni in campo aperto e in soprannumero per costruire canestri facili, coinvolgere tutti e offrire un tipo di pallacanestro che, per antonomasia, galvanizza i giocatori e scalda il pubblico che apprezza i cambi di ritmo, le giocate di intensità fisica, per fare uno scatto in più degli avversari. In difesa, oltre allo spirito di sacrificio per anticipare un pallone o strappare un rimbalzo, ho invece cercato di dare delle regole: elementi imprescindibili per dare al gruppo una visione d’insieme e offrire sicurezza ai giocatori, specialmente a quelli giovani e con poca esperienza che hanno bisogno di responsabilità e chiarezza nei compiti che sono chiamati ad assolvere. Al netto di tutto ciò, devo sottolineare che ho trovato grandissima disponibilità al lavoro e alte motivazioni per cambiare il senso di una stagione fin qui deludente. Allo stesso tempo ho trovato in Pozzecco una persona che, amareggiata e delusa, ha scelto di fare un passo laterale, ma da grande innamorato della Pallacanestro Varese, ha subito mostrato grande correttezza e chiarezza nei miei confronti. Quello che sarà il suo futuro riguarda lui e i dirigenti della società. Per il presente posso dire di aver trovato in “Poz” una risorsa, anzi, una bella risorsa. Mai e poi mai un problema. Da parte mia vivo la situazione con assoluta serenità ed il fatto che Gianmarco sia presente agli allenamenti o sieda dietro la panchina non mi procura nessun fastidio perché, ripeto, ribadisco, tra noi i rapporti sono chiarissimi. Forse, talvolta, ad aver esagerato nella dietrologia, nella facile ricerca di congetture e problemi, sono stati alcuni giornalisti».

Detto della tua filosofia, parliamo un po’ della tua storia e dei buoni maestri che hai avuto
«Mi reputo fortunato perché, agli inizi della mia carriera, negli anni di Pavia, ho avuto il privilegio di fare da assistente ad un terzetto di favolosi insegnanti. “Paron” Tonino Zorzi, professore dell’attacco col suo famoso “passing game”. Mario Blasone, professore della difesa in tutte le salse. Arnaldo Taurisano, professore di metodologia e organizzazione dellíallenamento e della partita. Lavorare al loro fianco Ë stato come frequentare un Master di alto livello in cui ti vengono insegnate tutte le materie. Poi, è chiaro, quando alla fine di questa “università” ho avuto responsabilità dirette in panchina ho cercato di adattare e modulare tutti questi insegnamenti e, volta per volta, a seconda delle caratteristiche delle mie squadre, ho provato ad aggiungere qualcosa di mio aiutato dall’esperienza maturata e dai naturali adattamenti legati alle mutazioni del gioco. Inoltre, aspetto che considero davvero importante per la mia formazione, ho avuto l’occasione davvero impagabile di potermi confrontare con allenatori di incredibile bravura come Messina, Scariolo, Obradovic, Skansi, D’Antoni, Rusconi, Lombardi, solo per citarne alcuni. Tutti tecnici che ti obbligavano ad alzare il livello di attenzione, concentrazione e determinazione se volevi stare al loro passo».

Possiamo dire lo stesso per giocatori? Anche loro ti hanno aiutato?
«Assolutamente sì -risponde Attilio-. La bellezza di avere a che fare ogni giorno con fuoriclasse riconosciuti è che si instaura un rapporto di dare-avere decisamente speciale. I campioni, oltre a facilitare il nostro lavoro, sono in grado di regalare, grazie a talento e classe, sfumature e letture del gioco che appartengono solo a loro. Oscar, Myers, Magnifico, Naumoski, Booker, Blair, Vukcevic, Coldebella, ma la lista potrebbe essere assai più lunga, ognuno per il loro ruolo, mi hanno fatto vedere modi diversi per giocare il pick and roll, costruire un tiro, andare a rimbalzo, giocare vicino a canestro, gestire la squadra e così via. Insomma: allenare i super-giocatori mi ha arricchito, ma poi, credo sia una mia qualità, sono stato bravo a capitalizzare questa ricchezza adattandola alle mie esigenze».

Attilio CajaDomandona filosofica: a tuo giudizio è vero che oggi si gioca male?
«Se il riferimento è alle grandi squadre del passato, e al livello qualitativo medio-alto di un tempo, la risposta al quesito è: sì, si gioca decisamente peggio, soprattutto perché sono cambiati protagonisti principali. Di fatto, puoi avere fra le mani il copione più bello del mondo, ma se gli attori non sono all’altezza del compito il film che uscirà nelle sale sarà abbastanza brutto. Se invece il riferimento è allo stile di gioco devo dire che questo non è granché cambiato. Ad essere mutato profondamente è il modo di allenare le squadre perché dovendo mandare sul parquet formazioni che frequentemente cambiano il loro volto e sono composte da una dozzina di giocatori di nazionalità diverse, con formazioni cestistiche, livelli di esperienza e di comprensione del gioco molto differenti, si preferisce dare un linguaggio comune e poi gestire la situazione. Solo gestire, però, diventa un rischio perché, poi, si vedono squadre che giocano un brutto “ciapa e tira”, oppure con solo un paio di giocatori che, palla in mano, dopo averla “pompata” per venti secondi provano a fare qualcosa. Se la conclusione è questa, allora sì, confermo: si gioca male. Io comunque provengo da una formazione culturale differente e da scuola di basket: mi piace lavorare con passione in palestra ed il mio traguardo è sempre quello: provare a migliorare i giocatori, convinto che attraverso i loro progressi migliorerà anche la squadra e, di conseguenza, i risultati. Lavoro tantissimo sulla condivisione di queste idee e mi piace che i giocatori siano sempre coinvolti nel progetto che ho in testa perché sono sicuro che l’avere puri esecutori di ordini non produca molto di buono. Invece, penso sia sempre meglio trascinare i giocatori, farli sentire protagonisti e lavorare con loro perché lo diventino. Obiettivi di questi tempi velleitari? Forse. Ma che ci volete fare, questa è la mia strada».

Quindi, che ne facciamo di Attilio Caja “sergente di ferro”?
«Facciamo per quello che è: un’etichetta, un po’ stantia, che mi è stata appiccicata addosso da qualcuno abituato ad essere “solo gestito” e non allenato. In realtà io voglio andare in palestra per lavorare, per fare le cose con accuratezza, impegno, attaccamento e grande professionalità. Pretendo molto da me stesso e desidero, voglio essere ripagato con la stessa moneta da chi mi circonda: giocatori, staff, società. Comportarsi così significa essere un rompiballe e/o un sergente di ferro. Bene, allora: sono proprio così. Felice e orgoglioso di esserlo. Soprattutto se come tutti ci auguriamo, porterà risultati positivi per l’Openjobmetis. Intanto cominciamo a battere Cremona e fare un altro passo avanti. Il resto -taglia corto Attilio in conclusione-, sono tutte chiacchiere».

Massimo Turconi