Finalmente, dopo tanti, pure troppi, racconti stranieri, una storia italiana. Una storia, quella di Andrea Casella, guardia-ala piccola della Openjobemtis Varese, che si declina, e si dispiega, in luoghi noti: Pisa, Livorno, Ozzano nell’Emilia, Veroli, Cantù, Varese. Una storia molto nostra e, consentitemi il termine, “nostrana”. Intesa nel senso di ruspante, umile, vera. Una storia fatta di sogni, speranze, ambizioni. Perché è mica vero che a sognare il grande basket sono solo gli “altri”. Quelli che, più o meno “abbronzati”, come se la rideva (?!) un noto politico, vengono dall’altra parte dell’Oceano. O quelli, più o meno stinti, rappresentanti dell’Est. A sognare il massimo palcoscenico, i parquet luccicanti, sono, per fortuna, anche i ragazzi di casa nostra. Anche quelli che, come nel caso di Andrea, arrivano da posti cestisticamente “vergini” e, quindi, se scelgono la pallacanestro è per convinzione vera.

«Sono nato a Pisa, una città calciofila, calciocentrica, calciomaniaca in cui -spiega Casella-, col basket ci si prende poco. Difficile pensare che in un simile deserto cestistico potesse attecchire una “mala pianta” come il sottoscritto,eppure, è successo!»

Segno che, evidentemente, le tue radici erano davvero forti: quali?
«Quelle del mio babbo, Sergio, che -continua Andrea-, da giovane non solo aveva giocato a pallacanestro, ma era anche quotato e talentuoso al punto che era stato richiesto per un provino anche dalla Pallacanestro Varese. Purtroppo però ebbe un serio incidente in moto proprio pochi giorni prima del test varesino e lì si interruppero tutti i sogni di papà. Anche per questa ragione l’estate scorsa firmai ad occhi chiusi l’accordo con la Pallacanestro Varese. Mi sembrò, in tal modo, di poter chiudere il cerchio lasciato in sospeso, suo malgrado, da mio padre. Non male per chi crede a misteriose coincidenze o arcani disegni superiori. Ma oltre alle radici paterne, al sostegno di mamma Marina che ovviamente è la mia prima tifosa ci sono anche i “rami” di mia sorella Francesca, pure lei giocatrice -a Empoli, squadra con la quale ha appena conquistato la promozione in A2-, peraltro decisamente più forte di me. Francesca, che per anni è stata la vera avversaria da battere nell’uno contro uno, mi ha sempre spronato e spinto a credere e lavorare tanto per realizzare i miei sogni».

Alma mater cestistica?
«A Pisa, come detto, non c’è basket così sono cresciuto in una società della zona: la GMV, acronimo di Ghezzano, Molina, Visignano, tre cittadine consorziate con l’obiettivo di lavorare nella pallacanestro, specialmente quella giovanile. In GMV ho fatto la trafila delle giovanili e a 15 anni mi sono accostato al primo campionato senior, in serie D. Una palestra perfetta per svegliarsi e imparare in fretta tutti trucchi, alcuni non proprio regolari, che si usano nel basket degli uomini. Dalla GMV a 18 anni mi sono trasferito iniziando la mia carriera tra i senior, prima a Lucca in serie B2 dove mi sono fatto “altre ossa”, poi al Don Bosco Livorno per disputare il campionato Under 19 di eccellenza, ma soprattutto per mettere il naso in prima squadra, allora in LegADue, con coach Sandro Dell’Agnello che, da allenatore di grande personalità e carattere, non esitava a buttarmi in campo, spesso addirittura in quintetto. Inutile sottolineare che a Dell’Agnello, come ad altri allenatori livornesi -Granchi, Corsini e in particolare Daniele Quilici che mi fatto capire che col basket avevo più di una chance-, sono molto legato e riconoscente. Dopo l’esperienza labronica, finita solo perché la società come ricorderai fallì, ho iniziato a girare: Ozzano, per una grandissima stagione con coach Salieri, poi in LegaDue a Piacenza con coach Corbani, allenatore prezioso perché ha agevolato il mio passaggio ad un livello superiore in termini di mentalità facendomi capire come fare, quali comportamenti adottare per tirare fuori il fuoco da me stesso. Dopo Piacenza sono passato a Cantù, esperienza importante sia perché mi sono allenato benissimo col terzetto Trinchieri-Molin-Brienza, sia perché mi ha permesso di toccare con mano il livello dell’Eurolega. Dopo Cantù sono stato a Veroli, per disputare una stagione assolutamente spettacolare, in un gruppo-giocatori fantastico per il quale ricordo con particolare affetto Cittadini, Sanders, Marco Rossi ed un tecnico, coach Ramondino, che mi ha fatto giocatore da ala piccola titolare dandomi sempre grande fiducia. A Veroli avevamo un seguito pazzesco ed il pubblico riempiva costantemente il palazzetto. Purtroppo, pur in mezzo a tutte queste note positive, l’annata di Veroli si è conclusa abbastanza male per responsabilità precise dei dirigenti che non hanno mantenuto gli impegni e, non a caso, non contenti dei disastri già accumulati, qualche settimana fa la società è addirittura sparita dal panorama del basket italiano».

Basket tricolore con sempre meno italiani in campo: come spieghi questo fatto?Casella
«Non voglio apparire presuntuoso, non fa parte del mio carattere, ma in tutta sincerità devo dirti che, in questo momento storico della nostra pallacanestro, mi dispiace non avere un cognome tipo “Casellovic”, o “Mc Casell”. Questo perché ho la netta impressione che, ormai, il cognome esotico eserciti un fascino particolare su dirigenti, tecnici e tifosi. Questo perché ho la netta sensazione che, ormai, sia in voga una sorta di razzismo al contrario in cui tutto ciò che non è italiano è valutato comunque meglio. Sia ben chiaro: non voglio nessuna facilitazione e, sottolineo, non mi piace per niente l’idea dei 5 italiani obbligatori. Una regola assolutamente antitetica per uno sport che si definisce professionista. Quindi, non chiedo protezioni e ho abbastanza in odio i trattamenti da “specie protetta”. Ma dal WWF alla specie di Inferno attuale, ce ne corre e, penso, in mezzo dovrebbe esserci più fiducia da parte di tutti nei giocatori italiani».

La gran parte dei dirigenti afferma che, a parità di rendimento, l’italiano costa troppo
«Perdonami ma questa è proprio una cazzata di proporzioni gigantesche e, per quello che so, non trova il minimo riscontro nella realtà. Anzi, per le mie conoscenze, aggiungo che, tolto il gruppetto di connazionali che sono al top-level, la maggioranza degli altri giocatori italiani, per stare in serie A, praticamente si prostituisce accettando contratti davvero infami. Ed è meglio che, nell’analisi della situazione, mi fermi qui».

Allora analizzami un’altra situazione: quella della squadra di quest’anno.
«Riassunto sintetico e crudo: il primo giro di “crema” dolcissima e invitante, con il grandissimo entusiasmo iniziale, le due vittorie, e quel pizzico di esaltazione collettiva, è arrivato troppo presto e tutto insieme un amaro fatto di tutto il male possibile: infortuni, assenze, problemi, eventi sgradevoli e tante altre incongruenze. Di sicuro non è stata un’annata granché positiva per me e non si è sviluppata la stagione che speravamo un po’ tutti. Dunque, capisco, comprendo e approvo la profondissima delusione e lo sconcerto dei tifosi. Però, in questi frangenti, emerge con tutta la sua prepotenza il mio carattere di “pisano feroce” e, per quanto mi riguarda, posso garantire alla gente di Masnago che Andrea Casella non mollerà, ne arretrerà nemmeno un millimetro. Ho tantissima voglia di giocare, di dare una mano alla squadra e, sotto il profilo personale, prendermi quelle soddisfazioni che, per tante ragioni, mi sono state negate. Spero, e mi auguro con tutto il cuore di avere a disposizione qualche occasione in più».

Casella, tra furore e speranze, torna improvvisamente serio. Il pensiero dei pochi esami che gli mancano per raggiungere l’ormai prossima laurea in psicologia gli piega lo sguardo catturando tutta la concentrazione. Poi, c’è quell’altro pensiero, più dolce e delicato, quello che vola verso Giulia Toti, la sua fidanzata. Poi, c’è un altro pensiero ancora, più enigmatico e pieno di interrogativi, che corre verso la prossima stagione: «Ho ancora un anno di contratto con la Pallacanestro Varese e, per ora, preferisco stare alla finestra cercando di capire cosa succederà».

Un’ultimissima curiosità: puoi spiegare il detto “Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”??
«E’ un proverbio tutto livornese, antico di secoli, che si rifa alla tremenda, spesso crudele, rivalità esistente tra le nostre due città. Un proverbio al quale noi pisani, cattivissimi come sempre, rispondiamo: “Ma che Dio v’accontenti”».

Massimo Turconi