Oggi ricorre il 30° anniversario della tragedia dell’Heysel. Come gli sportivi e non solo ricorderanno, quel 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, poco prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600. Quell’inferno si scatenò perchè i sostenitori dei Reds cominciarono a spingersi verso il settore Z, occupato per la maggior parte da famiglie bianconere che, impaurite, arretrarono e si ammassarono contro il muro opposto al settore della curva occupato dai sostenitori del Liverpool. Nella grande calca che ne seguì, alcuni si lanciarono nel vuoto per non rimanere schiacciati, altri cercarono di scavalcare ed entrare nel settore adiacente, altri si ferirono. Ad un certo punto, il muro addirittura crollò per il troppo peso; moltissime persone rimasero schiacciate e uccise dalla folla che correva verso le uscite.

Limido JuveTrent’anni dopo vogliamo rivivere questa pagina nera dello sport internazionale calandoci nella realtà varesina. Quel giorno, infatti, vissero in prima persona quei terribili momenti alcune persone che sono legate in più modi alla Città Giardino.
Uno di questi è Bruno Limido che, tirati i primi calci con la maglia biancorossa del Varese, arrivò a giocare anche nella Juventus dove rimase per una stagione, proprio quella del 1984/85. E lui all’Heysel c’era e ricorda: “Ho ancora ben impresso nella mente il clima che abbiamo respirato fin dal giorno prima: eravamo andati a fare un giro in centro a Bruxelles e i tifosi del Liverpool hanno assaltato il nostro pullman con sassi e spranghe. Quella sera le tribune erano stipate e anche mio fratello doveva venire a vedere la partita. Poi, per fortuna, un contrattempo l’ha bloccato e ho dato i biglietti che gli spettavano a due ragazzi di Tradate; invece di andare nel settore Z sono andati in tribuna e ancora oggi mi ringraziano perchè in qualche modo sentono che gli abbia salvato la vita. Quando eravamo negli spogliatoi ci siamo accorti che la situazione fuori era tesa e difficile – continua Limido -; entravano persone ferite e sanguinanti e non sapevamo cosa fare. Mentre andavo verso il pullman ho visto con i miei occhi i morti, non lo dimenticherò mai“. 
Limido prova a scacciare i brutti pensieri, ma in un giorno come questo è inevitabile che facciano ancora capolino: “Provo ancora una grande tristezza perchè credo che non si possa morire in questo modo per un match di calcio. 39 vite sono volate via per sempre”.

Cop_LibroAlberto Tufano, milanese d’origine ma varesino d’adozione, è un altro che quella sera era presente all’Heysel per tifare la sua squadra del cuore. Aveva 16 anni ed era arrivato in Belgio grazie ad un viaggio organizzato; aveva messo da parte dall’inizio della stagione le paghette settimanali, aveva venduto il motorino e, per realizzare il sogno di assistere alla finale di Coppa dei Campioni, si era fatto regalare le ultime 150 mila lire da un vicino di casa. Quel sogno, tuttavia, si è tramutato in un incubo, come racconta nel libro “Il ragazzo con lo zaino arancione” pubblicato dalla Gazzetta e scritto insieme al giornalista Francesco Ceniti. “Se il Liverpool è stato inibito da tutte le competizioni europee per sei annate, nei cinque anni successivi a quella tragedia non sono più riuscito a guardare una partita di calcio – racconta -. E’ stato proprio in quel periodo che mi sono avvicinato e appassionato ancora di più al mondo del basket e, in particolare, alla Pallacanestro Varese“.
Tufano, che da due anni sta collaborando proprio con l’ufficio stampa della società di Piazza Monte Grappa, ammette: “La Mobil Girgi è stato il mio primo amore per quanto riguarda la palla a spicchi e venendo al palazzetto di Varese ho riacquistato almeno in parte quella passione per lo sport che il 29 maggio 1985 mi è stata cancellata dai tragici avvenimenti. Non ho superato del tutto il trauma, però, e una ferita così grande è difficile da rimarginare”.

Gianmaria Vacirca, consulente area marketing di Pallacanestro Varese dal 2012 al 2014, esprime su facebook il suo personale ricordo di quella sera: “Il figlio di un ex grande portiere della mia squadra del cuore, operato da mio padre a un ginocchio dopo un incidente stradale, per ringraziarlo gli offrì un paio di biglietti per la finale di Coppa dei Campioni. Io ero felice come una Pasqua, ma alla fine in famiglia prevalse la linea del no. Ci mettemmo così davanti alla TV nella sala della casa di Loano. Ricordo le prime frasi di mamma Paola “Avete visto… Meno male che…” e il silenzio in cui cadde la nostra casa per le successive tre ore. Quella sera il mio rapporto con lo sport cambiò. E cambiò anche il mio rapporto con il tifo in generale. La “spinta” per provare a fare il giornalista divenne inarrestabile. La sensazione di malessere per quella Coppa non mi ha mai abbandonato, così come l’idea che attorno a questa vicenda siano ancora vivi dei silenzi e dei tabù che fatico a comprendere. Restano angoscia e preghiere e la terribile constatazione che da allora siamo proprio noi a non essere cresciuti. Fu l’ultima partita della Juve che vidi nella nostra casa di Loano: qualche mese dopo mio padre decise di chiudere la sua meravigliosa carriera di medico e di andare a vivere nel paese di una madre perduta tanti anni prima. Ma questa è un’altra storia”.

Michele Marocco