Max Ferraiuolo: sereno, forte e calmo. Come sempre. Come mai prima. L’essere rimasto, otto anni dopo, tra i pochissimi dello staff tecnico (l’altro è il preparatore atletico professor Marco Armenise) in grado di “resistere” alle frequenti intemperie, ha reso Massimo una sorta di “boa” alla quale aggrapparsi nei momenti bui. Merito della saggezza. Della capacità di restare al proprio posto anche quando, è successo, in diversi hanno preso la tangente e sono usciti fuori pista. Dell’intelligenza nell’offrire, nel corso degli anni, poche ma ascoltate parole. Nell’apprezzata disponibilità manifestata nel mettersi al servizio del bene comune. Nell’umiltà dimostrata nel pronunciare il pronome corretto – “NOI” al posto dell’abusato e fastidioso “IO” – e nel riconoscere gli errori.

«Dico la verità: l’estate scorsa, nella valutazione della squadra, ho sbagliato anch’io -ammette Massimo-. Mi sembrava che quel gruppo, visto all’opera nei primi giorni di lavoro in Val Chiavenna, avesse tutti le qualità per fare bene. Doti tecniche, fisiche, atletiche, attitudine al lavoro, motivazioni e “chimica” per funzionare al meglio. Sembrava, a me come a tanti, che la “macchina” proposta da Paolo Moretti e Bruno Arrigoni avesse tutti i meccanismi in ordine per, una volta esaurito il rodaggio, scatenarsi in pista con buoni risultati. Mi sbagliavo, peccato…».

Così, senza ragionarci troppo sopra, qual è la causa che riconosci come la principale per spiegare invece lo “schianto” successivo?
«Risposta facile e subitanea perché noi dello staff -continua i dirigente biancorosso-, ci siamo spaccati la testa nel tentativo di trovare una giustificazione plausibile. La considerazione più gettonata, e condivisa, nel corso delle nostre riunioni chiama in causa la scarsa conoscenza della realtà del campionato italiano da parte di tanti, troppi giocatori. Questo aspetto, la limitata esperienza complessiva, ha rappresentato certamente un grave errore al momento di costruire la squadra e, al di là delle valutazione sui singoli, emerge un quadro di inadeguatezza generale che ha avuto ripercussioni sia nell’assimilare i concetti di base, sia nel modo di stare in campo, sia nello sviluppo del lavoro tecnico e tattico. Insomma: se mai fosse possibile tornare indietro, se mai dovessimo costruire di nuovo la squadra penso porteremmo a casa qualche giocatore in più già abituato al basket italiano-europeo».

Mai avuto la sensazione che la squadra, per dirla tutta, fosse semplicemente scarsa?
«Ci siamo posti questo interrogativo immediatamente, all’indomani dei primi riscontri offerti dal campo. I dubbi che hanno subito riguardato Galloway, Thompson e Shepherd si sono rivelati via via sempre più sostanziosi. A questi aspetti aggiungiamo le difficoltà iniziali di Davies ed il fatto che, almeno in avvio, un paio di italiani (Campani e Ferrero), sembravano destinati a ruoli subordinati in attesa di una loro crescita».

Quali le tue considerazioni sul terzetto di USA che ha lasciato Varese?
«Ramon Galloway oltre ad essere un giocatore “particolare” sotto il profilo tattico, si è dimostrato un ragazzo fragile, superficiale nell’approccio con un mondo difficile come la serie A. Ramon è una brava persona, che però ha portato in spogliatoio i suoi problemi e mentalmente non si è mostrato pronto nel soddisfare le richieste di alto livello di un campionato professionistico. Nei suoi confronti, come noto, le abbiamo provate davvero tutte. Prima mettendolo fuori squadra per farlo riflettere, poi rimettendolo nel gruppo offrendogli un’altra “chance”. Tutto si è rivelato inutile e dopo le forti critiche del pubblico abbiamo pensato che, anche per il rispetto nei suoi confronti, non fosse più il caso di presentarlo alla platea di Masnago. Thompson, invece, doveva essere il tiratore-principe della squadra, ma a fronte delle ripetute non-prestazioni si è via via intristito e, di fatto, non si è mai visto. Shepherd, infine, non è mai riuscito ad entrare pienamente nel suo ruolo di giocatore-complemento e si è presto sfilato anche psicologicamente dalla squadra».

In mezzo a queste situazioni si è inserita anche quella di Ukic…
«In tutta sincerità speravo che con Roko non finisse così, ma nella sua vicenda anche noi abbiamo commesso un errore: ci siamo messi un po’ troppo nelle sue mani e Ukic ha cavalcato perfettamente il momento comportandosi da leader senza però averne le stimmate e, di più, senza prima aver guadagnato questo riconoscimento davanti ai suoi compagni».

E avanti di questo passo, giusto per farsi del male, ti dico un nome: Faye…
«La situazione più imbarazzante di tutta la nostra stagione e, se posso dirlo, anche la più sciocca che mi sia capitata in questi otto ani di attività. Il gesto di Faye ci ha messo nei guai seri in un momento delicatissimo sia in campionato, sia in coppa. Un atteggiamento che mai ci saremmo aspettati, specialmente da un giocatore fino a quel punto assolutamente perfetto. Faye non si era mai tirato indietro, aveva sempre avuto comportamenti adeguati ed aveva prodotto un rendimento più che soddisfacente. Un’“impresa”, quella di Faye, persino difficile da commentare…».

Cosa stai imparando da un’annata così balorda?
«Ho imparato che portare a casa il talento è bello e piace a tutti, è gratificante e fa cassetta, ma una realtà come Varese, nello scegliere i giocatori, deve pensare soprattutto ad altri aspetti. Quindi per il futuro dovremo valutare fin nel profondo le caratteristiche umane, prima che tecniche, il modo di lavorare, l’atteggiamento, la disponibilità nel capire il nostro contesto, la famiglia, gli studi, la carriera scolastica e universitaria. Insomma: avere un identikit completo dei possibili candidati e un ventaglio di informazioni a 360 gradi ci permetterà di ridurre errori nelle scelte».

Adesso sei già g.m. e, da quello che si legge, avrai sempre più spazio…
«Etichette e definizioni ai miei occhi valgono poco perché mi considero a totale disposizione della società per qualsivoglia ruolo e incarico e sono contento che i dirigenti abbiano apprezzato il lavoro svolto in questi anni. Un’attività che ho portato avanti nell’ombra, avendo sempre in mente una sola priorità: la squadra. È successo nel passato, è successo lo scorso anno, nel travagliato periodo del dopo-Pozzecco, e accade anche in questa stagione. Poi, quello che accadrà in futuro non mi è dato di sapere, ma chi sta nella stanza dei bottoni sa benissimo che io ho sempre dato tutto me stesso inseguendo l’obiettivo di far star bene gli altri: staff tecnico, giocatori e chiunque abbia a che fare con la prima squadra. Il tutto essendo consapevole che, per dire, da un personaggio come Bruno Arrigoni, vera enciclopedia della pallacanestro mondiale, ho solo da imparare. Sia tecnicamente, sia per la capacità di analizzare le situazioni. In questi mesi di lavoro comune ho scoperto un uomo sempre in grado di offrire una diversa chiave di lettura e un altro livello, spesso superiore, di interpretazione. Bruno, insomma, per chi la vuol cogliere è una risorsa incredibile».

Nelle tue parole hai citato la prima squadra, ma in realtà da diverso tempo sei il “dominus” del settore giovanile…
«Hai toccato una parte del mio lavoro che mi sta molto a cuore per la quale sto impiegando tantissime energie e spendendo in tutte le direzioni. Il traguardo, come noto, è ambizioso: riuscire a formare e lanciare in serie A giocatori allevati nei settori giovanili di Pallacanestro Varese e Robur et Fides. Da tanti, troppi anni, i nostri giovani per diverse ragioni non riescono ad emergere e affermarsi al massimo livello. Ecco, noi, lavorando insieme, unendo forze, risorse, investimenti, idee vorremmo provare ad invertire questa tendenza».

Il tentativo di collaborare, lo sai meglio di me, è già stato fatto più e più volte in passato, ed è sempre fallito. Spiegaci perché adesso dovrebbe funzionare….
«Perché insieme al dottor Corti, Franco Passera e Giovanni Todisco (responsabili dell’attività giovanile roburina, ndr) non abbiamo parlato di massimi sistemi o complicate filosofie. Siamo andati molto sul pratico trovando un accordo, su pochi punti. Un’intesa fattibile, concreta, che si pone un solo traguardo: lavorare insieme, in totale sinergia e con grandissimo impegno per regalare ai giovani di Varese un sogno: giocare in serie A, nella loro città. Consapevoli che a Varese, tra Robur e noi, siamo davvero in grado di proporre una “Scuola” e offrire uno straordinario ventaglio di scelte tecnico-agonistiche con pochi eguali in Italia: serie A, B2, C2, D. Il tutto senza più le diatribe “È mio, è tuo” che hanno caratterizzato il passato, ma con una sola prospettiva: “È di Varese…”. Anche perché essersi fatti scappare nomi che adesso giocano ad alto livello è delittuoso».

Il futuro, in breve…
«Prima di tutto pensiamo a battere Pistoia, squadra di buonissima caratura, e fare un altro passo verso la salvezza. Poi, per il domani a più lungo termine dico che sarà meno brutto di quanto qualcuno faccia credere perché, finalmente, ri-partiremo da alcune certezze: il “faro-Moretti” a dare luce; la presenza di alcuni italiani e un paio di stranieri sui quali costruire l’edificio. “Gente”, Giancarlo Ferrero esempio e manifesto per tutti, che ha dimostrato attaccamento, serietà, coesione e orgoglio biancorosso anche nel periodo più difficile. Sarà bello ricominciare insieme, il pubblico, vero gioiello di Varese, e noi perché, io ci credo, è nei momenti duri che riconosci chi davvero è disposto a darti una mano…».

Massimo Turconi