Max Ferraiuolo è una delle colonne portanti della Pallacanestro Varese: dal 2010 svolge l’incarico di team manager della prima squadra ed è anche l’attuale responsabile del settore giovanile e del minibasket. Quello del vivaio è un tema molto caro a Ferraiuolo, anche per questioni biografiche: è nato a Varese, è cresciuto cestisticamente nella Pallacanestro Varese e con essa ha calcato per diversi anni i parquet della Serie A. Nel 1990 era uno dei membri della Ranger che perse lo scudetto in finale contro Pesaro a causa dell’infortunio di Meo Sacchetti in gara 2.

Quali sono le gratificazioni e le difficoltà del ruolo di team manager?
«Bisogna saper capire in tempi brevi qual è il modo di ragionare e quali sono le necessità dei giocatori nuovi. Il team manager deve essere un tramite tra squadra, staff tecnico e società. Deve saper cogliere eventuali problemi e incomprensioni che non mettono le componenti nelle condizioni migliori per lavorare. Le gratificazioni arrivano quando riesci a superare queste difficoltà e a creare un rapporto di fiducia, giusto ed equilibrato, con tutti. Non è facile saper essere un buon rifugio quando qualcuno ha bisogno di parlare o di un consiglio, ma al tempo stesso mantenere le distanze necessarie per intervenire se c’è bisogno di alzare la voce con la giusta autorità. È un ruolo che mi piace perché riguarda aspetti un po’ più psicologici dei giocatori e del rapporto con tutto l’ambiente».

Il suo percorso da giocatore ha inciso sulla volontà di intervenire nel settore giovanile?
«Ha fatto la differenza: so cosa può significare per un ragazzo di Varese coronare questo sogno. Non è possibile che una scuola cestistica come quella di Varese, e qui mi riferisco a tutto il territorio, non sia riuscita di recente a produrre un giocatore in grado di vestire la maglia della prima squadra. La Pallacanestro Varese dev’essere un punto di riferimento per tutte le società della zona: deve attuare una sorta di collaborazione e di confronto con le altre realtà, diventando il polo di attrazione per i giovani che nel loro percorso riescono a sviluppare un talento particolare».

Un primo bilancio del progetto Crescere Varese, avviato un anno fa?
«Da noi si pone grande attenzione alla crescita personale ed umana: a partire dalla scuola fino ad arrivare alle relazioni con allenatori e compagni di squadra. Entra in gioco anche l’importanza delle famiglie, che devono collaborare nella crescita dei giocatori andando oltre agli aspetti legati al minutaggio o al numero di tiri dei figli. È un progetto ambizioso: forse siamo stati i primi ad averlo iniziato e a portarlo avanti. Auspichiamo che i nostri ragazzi, a prescindere dall’approdo o meno in prima squadra, sviluppino dentro di sé l’amore per il basket e che escano dalla nostra scuola con una certa educazione ed etica del lavoro».

Varese ha una squadra satellite in C Silver. Quant’è importante per i ragazzi questa chance al di fuori dei campionati giovanili?
«Abbiamo avuto l’anno scorso questa opportunità dalla federazione attraverso una wild card e non abbiamo avuto dubbi. Lo riteniamo un punto di arrivo, uno step di verifica dopo il normale percorso a livello giovanile. I ragazzi hanno così la possibilità di confrontarsi in un campionato senior contro giocatori più esperti e contro squadre che giocano un basket da grandi. È un po’ l’esame per capire cosa questi giovani hanno appreso e quale può essere il loro livello di uscita dal settore giovanile».

Filippo Antonelli