«Che dite, potete dare un passaggio a Pesaro al papà di Calavita?». Si era alla vigilia di gara 1 della serie di finale playoff 1989/90. Varese era colma d’entusiasmo come accade solo quando la sua squadra di pallacanestro le regala grandi risultati. Quell’annata, poi, con la Ranger di coach Giancarlo Sacco che offriva prospettive di successo, veniva dopo una lunga sequenza di stagioni in cui la crescita della squadra, prima griffata Divarese con Joe Isaac in panchina, era stata costante, sebbene priva di vittorie che arricchissero l’albo d’oro.

Ora sembrava che tutto fosse pronto per un nuovo trionfo, anche se si fronte c’era una Scavolini che il giovane Sergio Scariolo aveva forgiato al meglio, potendo sempre contare sulla coppia d’assi Daye-Cook (sì, proprio quello della palla rubata, ma col piede fuori dal parquet, nella semifinale ’88) e sui lunghi italiani Magnifico e Costa, tra i tanti giocatori ad alto livello di quel quintetto marchigiano.

Varese, però, dava l’impressione di poter essere pronta: certo, lo scavezzacollo Wes Matthwes, che aveva mostrato magie in avvio di campionato prima di rivelarsi per quella persona almeno inaffidabile che purtroppo era, aveva lasciato il posto a Frank “rana” Johnson. La squadra aveva comunque a sua disposizione un gruppo di assi di non poco conto: in primis, Corny Thompson e Meo Sacchetti, ma anche i varesini Cecco Vescovi e Max Ferraiuolo insieme a Ricky Caneva. E poi, le braccia sterminate di Stefano Rusconi, allora ventiduenne, stavano già facendo la differenza sotto canestro.

A dar una mano allo stesso Rusconi dentro l’area colorata l’estate prima era arrivato un oriundo (così allora veniva classificato nel basket tricolore): era un centro dal fisico possente, che aveva fatto molto bene oltre oceano con l’Università del Vermont. Il suo nome? Facile ricordarselo per chi visse quell’annata: Joe Calavita. C’era tante aspettative su di lui, in parte andate deluse.

Proprio alla vigilia di gara 1, era giunto a Varese il padre, un docente universitario californiano. «Certo, che possiamo portarlo con noi a Pesaro» rispondemmo alla richiesta da parte di qualcuno in società. Anche la nostra squadra delle trasferte era collaudata: io che avrei condotto la telecronaca della partita per Rete 55, l’eccellente fotografo di basket (e non solo) Marco Gauriglia e poi Franco Feraro, per la radiocronaca.

Papà Calavita fece dunque il viaggio con noi; appena entrati al vecchio e torrido (anche per l’afoso clima esterno) palazzetto di Pesaro riconoscemmo Lorella Cuccarini, allora testimonial delle cucine Scavolini. Poi tutti al lavoro.

Lo sapete come andò a finire quella serie playoff, condizionata dal pesantissimo ko che mise fuori gioco Meo Sacchetti per un gravissimo incidente al ginocchio. Peccato.

Ah… Joe Calavita non brillò: suo padre non lo vedemmo più. Eppure, anche grazie a quell’esperienza di vita, Joe ha saputo brillare professionalmente, una volta ritornato negli Stati Uniti. E oggi si occupa di ambiente, come responsabile di un programma per migliorare la qualità dell’aria in California.

Antonio Franzi