Giacomo Galanda è un pezzo di storia della pallacanestro italiana in generale. Sarebbe sbagliato e forse arrogante reclamarlo solo per sé, anche se a Varese ha giocato per sei anni – è stato capitano per tre – e ha fatto parte del magico gruppo della Stella nel ’99. La verità è che Gek ha vinto dovunque: uno Scudetto alla Fortitudo (nel 2000), uno a Siena (nel 2004), un oro agli Europei con la nazionale (nel 1999), l’argento olimpico di Atene nel 2004 e anche la Legadue con Pistoia nel 2013.

Proprio a Pistoia, ultima tappa della sua leggendaria carriera, Galanda ha costruito il suo presente e il suo futuro nella pallacanestro. Dopo aver ricoperto anche la mansioni di general manager, attualmente Gek si occupa per il club toscano dei progetti legati al settore giovanile e alla Citadella dello Sport, che dovrebbe ospitare il nuovo palasport pistoiese con 8mila posti a sedere. Galanda è anche nel consiglio federale della Fip in rappresentanza degli atleti professionisti

È stata una sorpresa, dopo Varese, riuscire a creare un legame così forte anche in un altro ambiente?

«Parto dal presupposto che nella mia carriera mi sono sempre legato molto alle maglie che ho indossato e questo è stato possibile perché ho avuto la fortuna di poter scegliere. In alcuni casi avrei potuto abbandonare un progetto dopo un anno, ma non l’ho mai fatto. Pistoia è diventato un luogo del cuore: ci ho giocato, mio figlio è nato qui e mia figlia ci è cresciuta, è un ambiente dove si vive bene e la pallacanestro è una realtà fondamentale. Per me dopo Varese era una situazione un po’ particolare perché pensavo che avrei chiuso la mia carriera lì, ma ho avuto la fortuna di trovare un ambiente in cui ho tutto e in cui ho costruito qualcosa a livello personale e societario, diventando dirigente».

Pistoia sta provando ad affermarsi come punto di riferimento del movimento toscano. Come proseguono i lavori?

«Abbiamo inaugurato il progetto Pistoia Basket Project, un investimento che facciamo girando palestre della Toscana e non solo e invitando i ragazzi delle diverse società alle nostre partite. Periodicamente organizziamo allenamenti con le società affiliate, strutturando il lavoro per annate e dedicando due ore ad ogni annata. Mettiamo a disposizione i consigli dello staff tecnico e di qualche nostro giocatore. Questo primo anno è stato un successo. Bisogna sempre spingere perché i ragazzi abbiano il meglio dell’insegnamento e la risposta del territorio è stata ottima».

Quali sono i princìpi della vostra attività in tal senso?

«È anche un modo per far conoscere chi siamo: pensate che in giro per la Toscana mi è capitato di trovare giovani giocatori che non sapevano che a Pistoia c’era la Serie A! Però non dobbiamo imporci sulle altre società o pensare al progetto come ad un modo per scoutizzare i giocatori. Dobbiamo far sì che la qualità del lavoro diventi alta sul territorio, così poi pian piano quando si cresce si possono costruire delle rappresentative. Noi vogliamo, in questo percorso, rappresentare un’opportunità per chi ha le potenzialità di portare il tutto al livello successivo. L’obiettivo a livello giovanile non dev’essere quello di vincere sempre: se succede bene, ma bisogna concentrarsi sulla crescita dei giocatori. È una frase fatta, ma fidatevi: da mettere in pratica non è un principio così semplice».

Spostandoci a Varese, come vede Massimo Bulleri nel suo nuovo ruolo?

«Sono sicuro che entrerà in punta di piedi, con l’umiltà che lo ha sempre contraddistinto. È nello staff per imparare e non per mettersi al di sopra di nessuno. Lo conosco come un grandissimo lavoratore, sono sicuro che abbia quello che serve. Deve affrontare un percorso e gli auguro di farcela il prima possibile, senza però bruciare le tappe. Il valore dei giocatori di un certo livello va riconosciuto: la conoscenza che uno acquisisce sul campo è una parte importante per capire determinate situazioni. Non vuol dire che si comincia avvantaggiati, comunque, perché per ripartire in un nuovo ruolo serve un reset. Il Bullo non penso avrà problemi: la sua serietà è proverbiale. Come gli ha detto Marcelo Nicola, nel basket abbiamo bisogno di persone come lui».

Le confessiamo che a Varese il nome di Marcelo Nicola è a tutt’oggi un tabù… Il ricordo della gomitata al Poz è ancora fresco!

«[ride, ndr]… Con Marcelo in campo era una battaglia e ci scambiavamo colpi di continuo, ma non abbiamo mai avuto problemi fuori dal campo con lui o con altri avversari. Siamo grandi amici. È un po’ come nel rugby: a fine partita passa tutto, le tensioni sono tutte da concentrare sul campo».

Che effetto fa tornare a Masnago da avversario?

«È sempre un’emozione, anche se quest’anno non ero presente alla trasferta. Giocare a Varese è stato bellissimo perché è una patria del basket, nonché una delle più importanti piazze storiche. Mi fa sempre un certo effetto sentir parlare dei ragazzi del ’99. Siamo ricordati tutti con grande affetto: oltretutto quando torni dopo tanto tempo vieni festeggiato magari un po’ di più rispetto a chi passa spesso di lì, come il Menego e Cecco. Quella squadra ha fatto la storia: parlo di squadra perché tale era, al di là dell’importanza dei singoli. Aggrediva il campo e sul campo dominava. La gente lo ha vissuto e lo ha apprezzato. Posso fare un parallelismo con quello che stiamo vedendo oggi?».

Prego.

«Lo spirito di quella Varese lo rivedo oggi in Trento: gioca allo stesso modo, è una squadra che è cresciuta assieme, che ha il piacere di stare assieme e che ha un grande allenatore».

Qual è il suo pronostico per la finale?

«Difficile farlo, da un lato perché ho amici da entrambe le parti e dall’altro perché tutte e due le squadre meriterebbero il successo. Sono contento che se la giochino queste due in finale: fanno respirare l’aria di quel tipo di pallacanestro che è giusto che vinca. Sempre un passaggio in più e movimenti senza palla, danno il giusto valore ad ogni singolo istante. Giocano un basket duro, lottano a rimbalzo e sanno alternare con sapienza tattica i vari tipi di difesa. Mi piacciono decisamente entrambe».

Filippo Antonelli