Mario Belluzzo, classe 1952, è una figura di riferimento per il calcio della nostra provincia. La sua lunga carriera comincia agli inizi degli anni ’80 nel settore giovanile del Bizzarrone, squadra dove conclude la sua esperienza di giocatore, prendendo la guida della formazione Esordienti. Nel decennio degli anni Ottanta, Belluzzo passa dal Bizzarrone, al Bosto e poi al Varese, sempre come allenatore di settore giovanile. La stagione 1989-1990 segna l’esordio sulla panchina di una prima squadra: la Pro Pratria. Seguiranno Varese, Legnano, Sud Tirol, Solbiatese e Bellinzago, ma è con i colori biancorossi che Mario Belluzzo lega una parte importante del suo percorso di allenatore sia nel settore giovanile sia con la prima squadra. Nel presente di Mario Belluzzo c’è la Varesina, collaborazione iniziata la scorsa stagione, con il ruolo di direttore tecnico del settore agonistico.

Cominciamo dal presente, dopo la prima stagione come valuta la sua esperienza con i colori rossoblù?
“La Varesina è una società ben organizzata e ben impostata. Al mio arrivo ho dovuto unicamente dare continuità a quanto avviato. Nel coordinare le 5 squadre del settore agonistico, unitamente ai rispettivi allenatori, abbiamo scelto di lavorare in anticipo, ossia di fare giocare nelle categorie più avanzate rispetto all’età giovani che dimostrano un grado di maturazione calcistica superiore alla propria carta di identità. Tutto questo mettendo in secondo piano l’aspetto del risultato e privilegiando il percorso di formazione del giovane calciatore”.

BELLUZZO MARIOQuali sono gli obiettivi principali che vi ponete come settore giovanile, nella specificità dell’ambito agonistico?
“Non bisogna vincere, ma far crescere i ragazzi. Il nostro obiettivo è quello formare in casa almeno il 60% dei giovani presenti nelle fila della prima squadra. In questa stagione militano in prima squadra quattro ragazzi nati nel 1999: Martinoia, Russo, Menga e Giudici. Nella partita di campionato disputata domenica 3 dicembre ha giocato la sua prima partita da titolare Morello Davide, classe 2000, che ha cominciato a vestire la maglia della Varesina dalla categoria Esordienti. Questi ragazzi sono i segni più evidenti di lavoro svolto nel nostro settore giovanile”.

Cosa è cambiato nell’attività con i giovani rispetto ai suoi inizi?
“Spiace dirlo, ma l’elemento di cambiamento più evidente è l’ingerenza dei genitori nell’attività sportiva dei propri figli. Oggi i genitori hanno troppa aspettativa, quasi a inseguire un riscontro sociale, e, non di rado, i ragazzi finiscono schiacciati da questa pressione e smettono di fare sport. Le aspettative genitoriali, oltre a incidere negativamente sull’aspetto psicologico dei ragazzi, complicano la possibilità di trasmettere ai ragazzi i valori della fatica, del sacrificio, della capacità di reagire ai momenti difficili. La cosa importante è che i ragazzi crescano facendo sport, a prescindere dall’esito del loro percorso, questo permette di formarsi in un ambiente positivo nel quale imparare a rapportarsi con gli altri, a rispettare le regole, ad acquisire gradualmente consapevolezza di se stessi”.

Le società che operano nel settore giovanile hanno qualcosa da rimproverarsi?
“Spesso le società cadono nell’errore di inseguire il risultato che, rimane un parte importante dell’attività a partire dal settore agonistico, ma non può mai essere l’obiettivo primario. Per le squadre del settore agonistico c’è la regola delle sette sostituzioni e gli allenatori dovrebbero sempre farle tutte e dare ai ragazzi la possibilità di giocare, quindi di divertirsi e migliorare. I ragazzi vanno fatti giocare il più possibile”.

Facciamo un passo indietro, nel suo percorso di allenatore c’è stata una persona che ha rappresentato per lei un punto di riferimento?
“Senza ombra di dubbio l’uomo e allenatore che per me è stato un punto di riferimento e una guida è stato Peo Maroso. Lui mi ha voluto portare dal Bosto al Varese nella stagione 1985-1986 e per me è sempre stato una persona alla quale riferirmi. Quando sono arrivato al Varese, gli altri allenatori erano tutti ex giocatori di calcio professionisti e io, che non avevo giocato a grandi livelli, mi sono dovuto confrontare con un certo scettiscismo. La fiducia di Peo Maroso è stata importante e le difficoltà ambientali di quegli inizi mi hanno aiutato a crescere”.

Nella sua attività con i giovani c’è qualche nome che vuole ricordare?
“Di  nomi ce ne sono tantissimi: Sogliano, Righi, Macchi, Bonadei, Ligori, Benin, Gandini, Cordone e ne dimentico moltissimi altri. Mi piace ricordare Paolo Vanoli, classe 1972, che contemporaneamente a me, ma come giovane giocatore, passò dal Bosto al Varese. Ho avuto il piacere di allenarlo e di vederlo diventare un giocatore di Seria A”.

Cosa ha vissuto il passaggio da allenatore di settore giovanile alla prima squadra?
“È un salto nel buio e spesso arriva in modo casuale. Alla fine continui a fare e applicare il tuo metodo e credo calcistico e ti formi strada facendo, con le esperienze e con le persone che incontri e  credono in te”.

Nel suo percorso di allenatore e di uomo di calcio qual è stata la gioia più grande e quale la delusione più forte?
belluzzo ambrosetti
“Le due stagioni, 1992-1993 e 1993-1994, alla guida della prima squadra del Varese con la quale abbiamo vinto, nella prima, il campionato di Serie D e la Coppa Italia di categoria, nella seconda la Coppa Italia di Serie C hanno rappresentato un biennio importante e molto gratificante, accresciuto dal fatto che molti giocatori che componevano quella rosa, Musolino, Riva, Bollini, Benin, Gheller e tanti altri, provenivano dal settore giovanile. Nelle stagioni più recenti ricordo con molto piacere la salvezza guadagnata, sempre con il Varese, nella stagione 2013-2014, nella quale io avevo ufficialmente la guida tecnica anche se sul campo andava Stefano Bettinelli. La delusione più forte, senza dubbio, il fallimento la stagione successiva, con la perdita dei ragazzi del settore giovanile, un vero peccato”.

Un consiglio agli allenatori?
“Essere convinti delle proprie idee e avere fiducia in se stessi. Ascoltare tutti e confrontarsi con le idee altrui, ma poi prendere sempre la propria decisione. L’allenatore è un uomo solo”.

In un momento nel quale in Italia è messo in discussione tutto il sistema calcio, qual è a suo avviso il minimo comune denominatore che dovrebbe unire le società e gli addetti ai lavori?
“Le priorità sulle quali coagulare gli sforzi di tutti sono le strutture, spesso inadeguate, vecchie o mancanti, e la qualifica e formazione degli istruttori dei settori giovanili, passaggio necessario per migliorare il livello calcistico dei nostri ragazzi”.

 Marco Gasparotto