La famiglia biancorossa ha celebrato un compleanno importante in settimana: quello del team manager Max Ferraiuolo che ha spento 53 candeline di cui molte, moltissime dedicate ai sacri colori:
“Guarda, anch’io in questi giorni ho cercato di fare un calcolo di quanti anni ho vissuto insieme a Varese. Ho iniziato a 6 anni col minibasket: mentre oggi è normale cominciare a quell’età, all’epoca ero un pioniere. Ci si allenava alla palestra di via Rainoldi con la maglia della mitica Ignis e correva l’anno 1971-72…In maglia biancorossa ho giocato fino alla stagione 91-92 per cui sono 20 o 21 anni più ora vanno sommati gli 11 anni come team manager: posso dire di aver superato i 30 anni di fedeltà alla maglia e sono mille gli episodi che mi vengono in mente. Da quando da piccolissimo piangevo perchè non volevo stare in palestra, all’emozione pazzesca dell’esordio con la maglia di Varese in campionato, l’infortunio con la rottura del tendine di Achille o l’infortunio di Meo Sacchetti nella finale scudetto del ’90. Non dimentico nemmeno la gioia provata 10 anni fa nel tornare come team manager grazie alla chiamata di Cecco Vescovi. Ho vissuto tantissimi anni e tante cose, sia belle che brutte”.
C’è qualche augurio in particolare che ti ha toccato più di altri in questi giorni?
“Al di là di tutti gli amici che fan sempre molto piacere, ho letto su Facebook gli auguri fatta dalla pagina del trust “Il basket siamo noi”: è stato un pezzo che, non lo nego, mi ha commosso. Penso di immaginare anche chi sia stato a scriverlo e devo dire che lui ha centrato in pieno il mio affetto verso Varese, la maglia e questa società. Basta dirti che mia moglie spesso mi rinfaccia che il mio primo vero amore è Varese!”.
Quando giocavi c’erano due stranieri e otto italiani. Oggi viviamo la prima riduzione col passaggio ad un massimo di 6 stranieri per chi sceglie il 6+6 dopo la punta dei 7 degli anni scorsi. Cambierà qualcosa negli equilibri o nella produzione di nostri giocatori?
“Al riguardo ho un pensiero semplice e scontato. Cioè che il vero problema è tornare a investire sui giovani e sulla vera produzione di giocatori. Perchè andare in un’ottica come questa di riduzione degli stranieri comporta che se la qualità dei nostri giocatori è bassa, si rischia di abbassare il livello del campionato. In realtà bisogna ripartire, a livello di settore giovanile, dai giocatori, da dei buoni allenatori di settore giovanile e dai preparatori atletici dedicati: solo così si può pensare di produrre qualcosa di buono. Bisogna che tutto il movimento torni a investire sui settori giovanili anche distraendo risorse dalle prime squadre”.
Provocazione: se atleti tecnici come voi degli anni ’80/’90 aveste avuto la preparazione atletica di oggi, dove sareste potuti arrivare?
“Doverosa premessa: è sempre difficile fare dei paragoni tra giocatori epoche diverse. Il nostro era proprio un basket diverso: basti ricordare che le azioni duravano 30″ e non 24″ come oggi. 6″ sembrano pochi, ma in realtà sono lunghi e pesano nell’economia della costruzione di un’azione. Ci sono tante situazione che han cambiato la pallacanestro in questi anni e, onestamente, non so come risponderti. Oggi, poi, ci sono necessità diverse: più contatto, più durezza e più velocità”.
Tornando al presente, sta nascendo una Varese interessante tra conferme e nuovi arrivi. Qual è la tua sensazione?
“Penso che la prossima sarà una Varese intrigante. Avrà dei giocatori che per caratteristiche sono adatti al sistema di coach Caja e non dimentichiamoci che confermare il 50% della squadra sarà un bel vantaggio. Penso che almeno all’inizio del suo cammino questa squadra sia più intrigante e con più potenziale di quella che è partita per lo scorso campionato”.
Parlaci del tuo rapporto con Caja.
“Forse non molti ricordano che il primo anno di Caja come capo allenatore a Pavia nel 92/93 coincise con la mia presenza in maglia pavese come suo giocatore. E’ chiaro che averlo conosciuto nelle vesti di cestista mi aiuta nel lavoro di oggi nel capire il suo metodo di allenamento e nel confrontarmi con i giocatori. Lui è un coach che pretende molto dagli altri, ma anche da sè stesso: basti pensare che Attilio vuole essere informato anche sull’organizzazione delle trasferte e spesso dice la sua anche in questo campo. Non lascia mai nulla al caso. E’ importante perchè sai di avere a fianco una persona super sotto ogni punto di vista”.
Matteo Gallo