Adesso, il problema vero, sarà giocarsi a dadi con “la Giovanna” la destinazione domenicale perchè coach Carlo Recalcati ha tali e tante richieste di presenza da rendere letteralmente carta straccia la sua agenda precedente.

Tali e tante richieste – presenza, consulenze in giro per l’Italia, aiuto da parte di coach amici, partecipazione a cene, dibattiti, presentazioni di libri, di eventi, manifestazioni cestistiche e chi più ne ha, più ne metta -, da dover porre un freno alla sua nuova vita da ex-coach.
“Un freno, ma di quelli potenti perchè – abbozza con un mezzo sorriso Carlo -, altrimenti finirei per l’essere travolto dagli impegni. Da un lato ovviamente mi fa molto piacere perchè in questo periodo, da quando ho annunciato ufficialmente la mia intenzione di smettere con la professione di allenatore, ho ricevuto innumerevoli segni d’affetto e attestati di stima. Fa piacere perchè significa pure che in oltre quarant’anni di professione qualche piccolo seme l’ho lasciato e qualcosa ha attecchito. Ma dall’altro lato ci sono anche dei comprensibili problemi logistici che mi impediscono di essere fisicamente presente in Italia in tutti i luoghi nei quali è richiesta la mia presenza. Infine, l’aspetto che è veramente dirimente in questa nuova fase della mia vita è uno solo: voglio alzarmi al mattino e sentirmi libero di decidere cosa fare e come impegnare il mio tempo solo dopo aver bevuto il caffè. Un’esigenza del tutto naturale dopo decenni durante i quali la mia esistenza è stata scandita in maniera rigorosa, sottolineerei assolutamente rigorosa, da allenamenti, partite, trasferte, riunioni e cosa via. Adesso, finalmente, sono e mi sento libero da qualsiasi obbligo”.

Partiamo dal tuo addio. Una decisione che, ho letto, è stata innescata da una bronchite contratta nel gennaio scorso mentre allenavi Torino. Ma, come dicono a Roma, “che davero, davero”??
“Verissimo – risponde Carlo -. Per la prima volta in quarant’anni alla FIAT Torino ho avuto una bronchite pazzesca, corredata da febbre alta, catarro, dolori articolari e così via. Una malattia davvero pesante che mi ha bloccato in casa per oltre due settimane imbottito di antibiotici e, soprattutto, mi ha fatto riflettere su un aspetto: non puoi pretendere il 100% dai tuoi giocatori e ai tuoi collaboratori, se tu non sei il primo ad offrire in cambio il 101%. Quelle due settimane lontano dalla squadra a Torino mi hanno fatto riflettere sulla mia età e sulle mie condizioni fisiche e quella bronchite mi ha fatto capire che non potevo più essere quello di prima anche se la salute è dalla mia parte, mi sento benissimo e ringraziando il cielo non ho mai sofferto di nulla di serio. Però, ripeto, per rispetto verso che mi paga e verso i miei giocatori ho sempre preteso il massimo prima di tutto da me stesso e, particolare non da poco, non ho mai pensato di fare l’eroe nè, al contrario di alcuni, ho desiderato di morire su un campo da basket. Così, naturalmente, ho scelto di fare un passo indietro al momento che ritenuto più giusto”.

Ripercorri, ricordandola, magari a grandi linee, la tua meravigliosa carriera.
“In verità ti devo dire che non avevo intenzione nè avevo programmato  di fare l’allenatore tant’è vero che, è cosa risaputa, già quando ero giocatore avevo iniziato l’attività di assicuratore aprendo una mia agenzia a Cantù. Quindi, tutta la mia “storia” come allenatore è nata per caso. Fin dal primo giorno. Per esempio, la mia prima tessera di allenatore, qualifica di Tecnico Regionale, la presi facendo da autista ad  Adriano Rusconi che, ai tempi, nei primi anni ’70, faceva da assistente a coach Arnaldo Taurisano. Rusconi infatti non aveva la macchina e io mi offrii di scarrozzarlo avanti e indietro tra il Pianella e una palestra di Como dove si teneva il corso allenatori. Mentre Rusconi assisteva alle lezioni, io bighellonavo aspettandone la fine. Allora coach Tracuzzi, responsabile tecnico del corso, prima mi chiese se volevo fare da dimostratore, poi vedendomi assiduo e sempre presente, mi iscrisse d’imperio al corso al cui termine passai l’esame finale mettendo in tasca il primo tesserino. Qualifica che in seguito si rivelerà fondamentale e determinante per la mia carriera perchè, senza quella, non avrei potuto accettare, nel 1981, la proposta dei dirigenti di Bergamo per allenare in serie B”.

Però, al di là del caso o delle intenzioni, non si può negare che la tua sia una carriera da “predestinato”, da “prescelto dal Dio delle panchine”: primo anno in B e subito promozione in serie A2.
“L’esperienza orobica, pur bellissima ed esaltante per risultati ottenuti e ambiente, non è stata però quella decisiva per farmi abbracciare definitivamente la carriera di allenatore. A Bergamo ero ancora vicino a casa e vivevo l’andare in palestra in una dimensione ancora famigliare. La vera svolta arrivò successivamente quando decisi di accettare le offerte di Reggio Calabria. Quello sì che fu il cambio che, usando un gioco di parole, cambiò per sempre la mia vita e quella della mia famiglia perchè trasferirsi da un microcosmo come Cantù ad una città come Reggio Calabria, distante mille chilometri dal tuo mondo e dalle tue abitudini, non è stato come dirlo. Non è stato proprio semplicissimo”.

Invece, dichiarazione recente di Marco Sodini, tuo assistente a Cantù, sembra che il tuo “coach-style” si rispecchi al 100% nel concetto di semplicità.
“E’ vero: mi riconosco totalmente nelle parole pronunciate da Sodini e, a suo tempo, anche dal Presidente FIP Enrico Petrucci. Parole che, sottolineo, mi gratificano. La mia pallacanestro, se mai si può utilizzare questa frase, è sempre stata semplice, lineare, essenziale. Poche cose, ma fatte bene, nell’esecuzione dei movimenti, degli automatismi tecnici, tattici e mentali. Il tutto nel tentativo di raggiungere la perfezione. Qualche volta ci sono andato vicino”.

Vicino, vicino, direi: tre scudetti conquistati in tre città diverse rappresentano il sogno per tutti gli allenatori.
“Tre momenti speciali, diversissimi e per questo incancellabili nella mia memoria. Lo scudetto a Varese è stato quello di una splendida, consapevole follia che, cavalcata da Edo Bulgheroni, si concretizzò nel liberare il talento tecnico e umano di due purosangue come Pozzecco e Meneghin. Lo scudetto con la Fortitudo Bologna è stato quello che proprio non potevi perdere perchè io, una squadra così forte, così incredibilmente forte, non l’ho mai allenata. Ma, per questo motivo, è stato anche lo scudetto più complicato perchè, prima dei nostri avversari, abbiamo dovuto superare le nostre paure e la tremenda pressione che in quegli anni pesava sulla squadra, e sulla Bologna del basket. Infine, lo scudetto con Siena è stato quello figlio di una scientifica programmazione partita negli anni precedenti. Un titolo arrivato però in anticipo sui tempi previsti e forse per questa ragione ancora più bello e vissuto”.

Il tuo “capitolo” in Nazionale, per la sua bellezza, assomiglia addirittura ad una favola: un bronzo agli Europei del 2003, il ricordo di quella stupefacente notte di Colonia in cui la tua Italia piegò il Dream Team e, infine, la “pazzesca” finale Olimpiadi di Atene 2004.
“Per ritornare al concetto di semplicità, potrei dire di essere stato l’uomo giusto, al momento giusto, alla guida di un gruppo di giocatori “giusti” per mentalità, dedizione al lavoro, attaccamento alla maglia azzurra, orgoglio, fame e tante, tante altre qualità. Tuttavia, è chiaro, il discorso potrebbe essere molto, molto più lungo e bisognerebbe entrare nello specifico di alcuni momenti chiave e, in questo senso, gli Europei di Lulea in Svezia nel 2003 che ci qualificarono per Atene hanno un peso specifico enorme”.

Sono numerosi quello che hanno scritto: “Recalcati si ritira, si chiude un’epoca”. Che effetto ti fa questa frase?
“Mi sembra un po’ esagerata anche perchè, in tutta umiltà, non mi sembra di aver contrassegnato un’epoca. Ho fatto il mio lavoro con impegno, concentrazione e serietà, ma come è accaduto per tanti altri colleghi. In realtà, non ho ancora trovato un vero significato a questa considerazione. Vedremo in futuro…”.

Torniamo all’inizio e alla “famosa agenda” dei tuoi impegni: la “tappa” di Varese l’hai già scavallata, visto che eri presente in parterre contro Brescia. Che impressione ti ha fato l’Openjobmetis?
“Quella gara, ma più in generale il rendimento prodotto in queste primo scorcio di campionato, stanno confermando le premesse: quelle legate ad una squadra solida, esperta, che in campo sa sempre cosa fare e segue con attenzione la linea tecnica e tattica tracciata da coach Attilio Caja. Tutti questi elementi, che stanno dentro al progetto voluto dai dirigenti della Pallacanestro Varese, insieme alla presenza di italiani protagonisti, penso soprattutto a Tambone, Ferrero e Iannuzzi, rappresentano un valore aggiunto che certamente aiuteranno e spingeranno Varese verso l’obiettivo playoff. Traguardo non facile perchè la concorrenza è molto, molto agguerrita, ma più che possibile”.

In chiusura ti chiedo il quintetto “All Star” dei giocatori che hai allenato.
“Scelgo Pozzecco, Myers, Meneghin, Volkov e Jura, ma se me lo consenti aggiungerei altre due cose. Vorrei mettere altri tre giocatori di grandissimo spessore come Basile, Vanterpool e Gek Galanda, e – conclude con un dolce sorriso Carletto -, aggiungerei una frase. Vorrei che tu scrivessi: “giocatori che ho avuto il privilegio, la fortuna e il piacere di allenare””.

  Massimo Turconi