Un percorso partito da lontano, un calciatore che ha dovuto fare tanta gavetta prima di calcare palcoscenici importanti nel panorama calcistico italiano, con la speranza di arrivare, prima o poi, a quel sogno tanto ambito chiamato Serie A. Un traguardo difficile sì, ma non impossibile da raggiungere, e più di qualche occasione sfumata solo a causa di beffardi intrecci del destino. Uno tra tutti, il trasferimento a Varese, avvenuto a gennaio 2012 ma concretizzatosi appena dopo la finale playoff persa contro la Sampdoria. Una squadra, quella, capace di far sognare, proprio come ha sognato Elia Bastianoni all’esordio in B contro l’Ascoli, all’inizio di una strada che sembrava decisamente in discesa, salvo poi doversi arrendere all’esperienza del fallimento.
Pronti via, si riparte dalla Serie C, destinazione Catania, in una parentesi assolutamente poco fortunata che ha contribuito, e non poco, a rimettere in discussione ogni certezza del giovane portiere, pronto a ripartire da Bassano prima e Santarcangelo poi. Il Varese, comunque, gli è rimasto sempre nel cuore, e più di una volta ha dichiarato di provare profonda ammirazione per una città e per un popolo che, evidentemente, lo ha saputo far sentire a casa propria sin dall’inizio.

Hai militato nelle giovanili dello Spezia, prima ancora di passare alla Sarzanese. Come è nata la tua passione? È vero che, sin da bambino, hai sempre pensato di voler fare il portiere?
“Ho sempre amato il calcio sin da piccolo e appena raggiunta l’età giusta per andare a giocare sono entrato in questo mondo. All’inizio giocavo in mezzo al campo, ma quando era il momento della partita nessun bambino voleva andare in porta, così finivo sempre per andarci io. Fu proprio papà a dirmi di iniziare a pensare al portiere come mio vero ruolo, ricordo ancora le sue parole come se fosse ieri. Pian piano sono riuscito a migliorare, passando da una squadra di provincia alle giovanili dello Spezia. In quegli anni, però, quello dei liguri non era un settore giovanile che godeva di grande considerazione, dato che si diceva che la società pensasse più al profitto economico che alla crescita dei ragazzi”. 

E con te come è andata? Hai avuto anche tu questo tipo di sensazioni?
“Ancor prima dello Spezia mi voleva la Fiorentina, con cui mi allenavo tutti i martedì e i giovedì. Mi avevano proposto un contratto, poi i liguri si sono messi in mezzo e sono stato quasi costretto ad andare da loro. Io, in ogni caso, non mi sono posto problemi. Era una squadra di Serie B e mi sembrava comunque una buona opportunità, nonostante quello che si sentiva dire. A posteriori, posso dire che è stato l’errore più grande della mia vita. Stavo quasi pensando di smettere di giocare ma, fortunatamente, alla fine sono riuscito ad andare alla Sarzanese e da quel momento, per me, è iniziato un percorso completamente diverso”.

A Sarzana incontri mister Sottili, personaggio che ritroverai anche nelle successive esperienze a Carpi e Varese. Possiamo dire che si è instaurato un rapporto speciale con lui?
“Assolutamente sì, devo molto sia a lui che a Rollandi, il preparatore dei portieri. Anche loro erano di Spezia, di nome già li conoscevo. Con Rollandi, però, non è stato subito amore a prima vista. È un uomo preparatissimo, ci mancherebbe, e potrebbe allenare a livelli decisamente più alti, ma è anche molto esigente. Pretende davvero tanto dai suoi ragazzi e se non entri nella giusta mentalità hai difficoltà nel relazionarti con lui tanto che, all’inizio, volevo andare via anche da Sarzana. Ad oggi, però, posso dire che sono stati loro la mia fortuna”.

Dicevamo di Carpi. Come è nata la trattativa con gli emiliani? È stato il mister a chiederti di seguirlo?
“Sì, finita la stagione a Sarzana mister Sottili mi aveva chiamato per dirmi che c’erano grandi possibilità di vedere il Carpi ripescato in C2, così mi ha chiesto di andare con lui. Ai tempi c’erano le regole per gli under anche in Serie C, bisognava per forza schierare dei giovani e loro avevano pensato a me. Ai miei genitori dissi di non volerci nemmeno riflettere, era davvero una grande occasione e volevo sfruttarla al volo”.

A Carpi, però, che ambiente hai trovato? Dicevamo del ripescaggio dalla D, ma allo stesso tempo avete fatto una stagione brillante che vi ha permesso di centrare subito il doppio salto di categoria. 
“In Emilia sono stato davvero bene, anche se l’ambiente di Varese non l’ho mai trovato da nessun’altra parte. Se potessi venire a vivere in Lombardia, lo farei subito, ma Carpi è, senza ombra di dubbio, la seconda città più bella tra quelle in cui ho vissuto. L’unica cosa è che per i carpigiani il calcio non è così importante come in altre piazze, anche se, con il passare degli anni e con la promozione della squadra in Serie A, le cose sono un po’ cambiate”.

A gennaio 2012, comunque, vieni acquistato dal Varese, pur rimanendo in prestito a Carpi fino al termine della stagione. Come hai vissuto questa situazione?
“Ricordo che un giorno mi chiamò il mio procuratore per dirmi che mi stava cercando una squadra di Serie B. Si parlava tanto del Padova, ma alla fine ho scoperto che mi volevano in Lombardia e sono stato davvero contento. Da quel momento, ho iniziato a seguire i percorsi sia di Carpi che di Varese, e ricordo con grande dispiacere la finale persa con la Sampdoria”.  

L’ultimo anno a Carpi giochi da titolare fino a metà stagione. Poi, dopo il passaggio al Varese, non sei praticamente più sceso in campo, nonostante fossi ancora un loro giocatore. A cosa è dovuta questa scelta? Pensi che volessero valorizzare maggiormente i ragazzi di cui detenevano il cartellino?
“Non ne ho idea, non so di preciso quali fossero le loro intenzioni. Probabilmente avevano raggiunto l’obiettivo di monetizzare con la mia cessione, e magari a loro bastava quello. Stavo bene fisicamente, non avevo problemi, ma potrebbero aver fatto anche una valutazione semplicemente legata all’esperienza. Non scordiamoci, infatti, che in squadra avevamo Mandrelli, che di partite ne aveva giocate molte più di me”.

Appena arrivi in Lombardia, però, vieni subito schierato da titolare, sia in coppa che in campionato contro l’Ascoli. Ti aspettavi un inizio del genere?
“Ti confesso che appena arrivato a Varese avevo il timore di non essere all’altezza. La loro era una squadra che stava facendo bene, venivano da un percorso incredibile e io ero ancora molto giovane, penso sia normale avere questo tipo di paure. Quello che mi ha aiutato è stato sicuramente il rapporto che avevo con i miei ex compagni, non è stato difficile ambientarmi e con molti di loro sono entrato subito in sintonia. Per quanto riguarda l’esordio, invece, ho bei ricordi della partita di Bologna, è stata una bella emozione. Però, diciamocelo, la prima in casa è stata un’esperienza davvero incredibile. Ricordo che si giocava di sera, l’atmosfera era magica, ma io non riuscivo nemmeno ad aprire bocca per quanto forte fosse l’adrenalina”.

Non hai avvertito, nello spogliatoio, una certa delusione per quanto successo l’anno prima? Non è facile archiviare una sconfitta come quella della finale playoff.
“Sicuramente sì, soprattutto per come era andata la partita di ritorno. Avevo iniziato a seguire il Varese e secondo me la promozione in Serie A sarebbe stata assolutamente meritata. Poi, si sa, il calcio è fatto anche di episodi e ci sono alcuni gol che probabilmente ti riescono una sola volta nella vita, come quello di Gastaldello arrivato a 10 minuti dalla fine. Insomma, la delusione c’era, ma la voglia di dimostrare e fare bene era comunque tanta, nonostante la squadra avesse perso parecchie pedine importanti. L’unico rammarico è quello di non aver raggiunto nuovamente gli spareggi l’anno dopo”.

Avevate iniziato con Castori, poi esonerato alla 37° di campionato con una formazione ancora in corsa per i playoff. Il percorso, in fondo, era stato tutto sommato buono, come ti spieghi il cambio con Agostinelli?
“Sinceramente ero troppo giovane per comprendere a pieno certe dinamiche. Quello era il primo anno che vivevo realmente da professionista, perché a Carpi ancora mi sentivo completamente estraneo dal mondo dei “grandi”. Diciamo che, purtroppo, anche ad un buon allenatore bastano due o tre risultati negativi per essere messo in discussione”.

A livello personale, hai qualche rammarico per come è andata la prima stagione a Varese?
“No, sinceramente quell’anno non avrei dovuto nemmeno giocare, non posso lamentarmi di come è andata. Poi è normale, finita la stagione ero dispiaciuto, perché giocarsi la Serie A sarebbe stato bello, ma non posso nemmeno rimproverarmi nulla”. 

Arriviamo alla stagione 2013/2014 quando, a Varese, incontri nuovamente mister Sottili. Il cammino in campionato, però, si rivelerà più difficile del previsto. Cosa è successo quell’anno?
“Siamo arrivati ai playout, tra l’altro con gli stessi punti del Cittadella, dopo 8 sconfitte consecutive. Vuol dire che sarebbero bastati davvero pochi punti in più per avere una posizione dignitosa e, perché no, raggiungere addirittura i playoff. A gennaio si pensava alla Serie A, poi c’è stato il tracollo. Fortuna ha voluto che avevamo Pavoletti in squadra e, si sa, Leonardo è un giocatore in grado di risolvere le partite da solo”. 

Non pensi che, in sede di calciomercato, ci sia stato qualche cambio di troppo? Forse la stessa società aveva in mente di iniziare un nuovo ciclo, inserendo forze fresche al posto di ragazzi forti sì, ma che potevano aver perso gli stimoli giusti per rendere al meglio.
“Magari la società voleva dare una svolta rispetto alle stagioni passate. A volte, pur cambiando molto, si riesce a costruire il giusto ambiente, ma ci sono tanti fattori che possono influire. Molto dipende anche dall’allenatore, se riesce a darti o meno la scintilla giusta”.

Di allenatori, però, il Varese ne ha cambiati davvero tanti quell’anno.
“Sì, tra Gautieri, Sottili e Bettinelli si era creata molta confusione e troppi cambi sono anche sintomo di difficoltà societarie, oltre al fatto che, in questo modo, non dai continuità a nessun progetto tattico. Poi secondo me se mandi via un allenatore come Sottili, non ha senso richiamarlo in seguito perché è difficile che riesca a darti la scossa giusta una volta tornato. O si ha il coraggio di scegliere quattro mister diversi, non guardando chi è ancora sotto contratto, o non ha proprio senso ritornare da chi hai già cacciato”.

A proposito di società, c’erano dei sentori di come sarebbe andata a finire? Sappiamo tutti come è andata l’anno dopo ma voi, nello spogliatoio, iniziavate già a sospettare qualcosa riguardo ad un possibile fallimento?
“Diciamo di sì, già da quell’anno giravano voci strane quando si trattava di pagare gli stipendi e c’era sempre l’ansia di incappare in qualche punto di penalizzazione. Voci che, alla fine, si sono concretizzate l’anno dopo, quando fino all’ultimo giorno non si sapeva se la squadra si sarebbe iscritta o meno, con la documentazione che è arrivata solo all’ultimo momento. Quando ci sono queste situazioni è difficile che le cose possano migliorare durante l’anno, a meno che non arrivi un radicale cambiamento nella proprietà. Se ci sono queste difficoltà, vuol dire che c’è già un bilancio fortemente negativo e la situazione non può essere facilmente risolvibile”.

Anche voi ragazzi, però, avrete sofferto una situazione così precaria.
“Sicuramente, anche sotto un punto di vista mentale. Un giocatore la vive male, soprattutto se le prestazioni della squadra non sono all’altezza delle aspettative. È normale che, se vedi che sei nelle zone basse della classifica, non riesci nemmeno a reagire dopo una brutta gara. Quell’anno, però, ricordo che fino a gennaio speravamo nella salvezza, ce la stavamo mettendo davvero tutta. Poi, dopo il mercato, le cose sono cambiate, con tanti giocatori che sono andati via e tanti giovani che venivano schierati per avere un po’ di visibilità”. 

Mi hai parlato dei giocatori che, a gennaio, hanno lasciato Varese, e tu stesso sei uno di quelli. Sentivi davvero il bisogno di cambiare aria ed andare via da una situazione così complicata?
“Sì, con tutto il bene che voglio alla città di Varese e all’ambiente, avevo capito che non c’erano più le condizioni giuste per continuare. Anche perché avevo smesso di giocare da titolare e se già non aveva senso rimanere con quella situazione, figuriamoci se potevo restare venendo messo sempre in panchina”. 

Tra l’altro era un periodo poco brillante per te. Alternavi prestazioni eccellenti, come quella contro l’Avellino, a partite meno buone, come nei casi di Vicenza ed Entella. C’era qualcosa che non stava funzionando?
“Penso che quelle due partite non le scorderò mai. Dopo l’Avellino venivo considerato una sorta di eroe, mentre poi sappiamo tutti ciò che ho dovuto subire in seguito. La verità è che non sempre, quando c’è un cambio societario, si riesce ad entrare in sintonia con tutti. Ci sono persone che, vuoi o non vuoi, si basano solo sulle ultime prestazioni, dato che probabilmente non avranno seguito nulla di quello che è stato l’andamento dei ragazzi e della squadra durante l’anno e che fanno delle scelte in base alle ultime due partite che hanno visto. Sicuramente, il metodo di giudizio dei nuovi entrati in società è stato questo”.

A Livorno, però, non riesci mai a scendere in campo, anche a causa di un infortunio che ha condizionato il tuo finale di stagione. Come è andata in quel caso?
“Mi aveva chiamato Luca Mazzoni che, ai tempi, era mio cognato, chiedendomi se volessi andare da loro vista la situazione che si era venuta a creare a Varese. Con mia moglie, che è di Livorno, abbiamo pensato che potesse essere una buona soluzione, anche se sapevo che avrei fatto il secondo. Il mio, alla fine, era solo un prestito, ma la speranza di poter essere ripreso al termine della stagione c’era, non lo nego, e in ogni caso mi sembrava l’unica scelta da fare una volta arrivati all’ultimo giorno di mercato”. 

In quegli anni, hai più volte dichiarato di volere la A con il Varese, ma nel giro di poco ti ritrovi a dover ripartire dalla C con il Catania, in una delle esperienze meno fortunate della tua carriera. Come ti sei trovato in Sicilia?
“È stato un anno da dimenticare, sotto tanti punti di vista. Venivo dall’infortunio e sarebbe dovuta essere la stagione della rinascita quando, alla fine, è stata quella che più di tutte vorrei cancellare. È vero, io non ho fatto molto bene quando sono stato chiamato in causa, ma tutto l’ambiente veniva da una situazione complicata, legata anche alle inchieste sul calcioscommesse, tra retrocessione e ripercussioni varie”. 

Però eri consapevole di quella che era la situazione a Catania. Banalmente, perché hai accettato la loro proposta?
“Perché comunque era una squadra di un certo blasone e quando ti arrivano proposte del genere è sempre difficile dire di no. Avevano fatto gli ultimi anni in A e in B, la speranza era quella di fare una buona annata e magari risalire subito, grazie anche ai tanti nomi che avevamo in rosa, Falcone e Calil su tutti. Poi, ripeto, era tutta la situazione ad essere particolare, l’ambiente era giustamente avvelenato per quanto successo e sia io che la mia famiglia l’abbiamo vissuta davvero male”.

In chiusura. Hai parlato di Catania come possibile ripartenza ma, in una precedente intervista, hai descritto Bassano come l’occasione per la svolta. Lo è stata davvero in qualche modo?
“Fino a gennaio possiamo dire di sì, però quella di rendere sempre fino a metà stagione è stata, purtroppo, una costante che mi sono portato avanti in tutti gli ultimi anni della mia carriera. Il fatto è che, ad un certo punto, quando i risultati iniziano a non arrivare, le stesse prestazioni di un giocatore ne possono risentire, come successo nel mio caso. Certo, non che avessi fatto malissimo, ma all’interno dello spogliatoio erano successe tante cose particolari che mi hanno condizionato in maniera importante. Ad esempio, hanno fatto in modo che la fascia di capitano passasse da Bizzotto a Rossi, l’altro portiere, e per questo da un certo punto in poi è stato preferito lui rispetto a me”.

Dopo questi episodi, avevi già iniziato a pensare, concretamente, di abbandonare il mondo del calcio?
“No, a Bassano ancora non avevo maturato questa decisione. È stato in estate che ho iniziato a pensarci seriamente, ma in generale i mesi tra una stagione e l’altra li ho sempre vissuti male, soprattutto nelle ultime fasi della mia carriera. Le prestazioni non erano delle migliori, i contratti tutti annuali, non sono stati momenti facili. Negli ultimi mesi a Bassano, poi, era nato anche mio figlio, e ho iniziato a vedere tutto in maniera diversa. Da padre di famiglia, devi pensare anche a quello che è il futuro del bambino e della tua compagna. Non potevo continuare ad arrangiarmi per un contratto, non potevo costringere tutti a girare l’Italia vivendo tra mille dubbi e mille incertezze. Ricordo perfettamente come ho maturato la decisione di smettere. Io e la mia ragazza eravamo in vacanza all’Isola d’Elba e un giorno mi sono svegliato molto presto, più o meno verso le 7 di mattina, per pensare alla soluzione per l’anno successivo. All’improvviso ho iniziato a riflettere sul fatto che non potevo continuare ad “impazzire” per nulla, dovevo cambiare vita ancor prima che godermi la vacanza”.

La tua famiglia come ha preso questa decisione?
“La mia ragazza, all’inizio, ha provato a farmi cambiare idea, così come mister D’Angelo, una persona di poche parole e che difficilmente ti cerca, se non per dirti qualcosa. Avrebbe potuto portarmi a Pisa con lui dopo l’esperienza a Bassano, ma volevo provare a reinventarmi in altri modi. Ormai avevo deciso di voler lasciare il mondo del calcio, non ho voluto sentire ragioni”.

L’ultimissima. Qual è il momento più bello che hai vissuto nella tua esperienza da calciatore?
“Sicuramente sceglierei la partita di andata nei playout contro il Novara. Lo dico con sincerità, ormai ho lo sdegno del calcio, ma quando mi viene un attimo di nostalgia inizio a rivedermi i video di quella partita. È l’unica che ho la voglia e il piacere di rivivere”.

Gabriele Rocchi

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