Forse un “grazie” non basta per esprimere tutta la nostra gratitudine nei confronti di chi non si sta risparmiando in queste lunghe settimane e che sta continuando a fare tanto per il nostro Paese. Un enorme aiuto quello che ogni giorno mettono in campo volontari e non della Croce Rossa Italiana, vicini ai più bisognosi e a chi è in difficoltà.
Senza andare troppo lontano abbiamo una realtà locale, la CRI Luino e Valli impegnata quotidianamente nella lotta contro il Coronavirus. Uomini e donne che sono anche padri e madri e che, oltre ai problemi che devono affrontare in “trincea”, hanno come altra preoccupazione quello che il loro operato può avere sulla  loro famiglia. È anche questo uno dei tanti lati nascosti di questa battaglia dove non c’è il tempo di sedersi e riflettere su quanto si è fatto che subito bisogna essere reattivi.
Di quello che stanno passando e come lo stanno affrontando ce ne ha parlato Stefano Pasta, delegato dell’Obiettivo Salute e che si occupa della sanità pubblica e quello che concerne l’organizzazione delle ambulanze. Da 16 anni alla CRI di Luino che conta un totale di 250 volontari che svolgono servizio di notte e nel weekend e che si alternano agli 8 dipendenti che lavorano di giorno e 60 persone in servizio attivo in ambulanza.

Come sta vivendo questa situazione a livello personale e lavorativo?
“Sicuramente non è una situazione facile, siamo abituati ad affrontare le emergenze, ma questa volta il nemico è invisibile e bisogna fare molta attenzione quando si interviene, ma anche nelle fasi successive. Il rischio è alto. Prima del turno, per quanto mi riguarda, ho sempre qualche pensiero in questi giorni particolari, ma una volta in servizio con i colleghi si cerca di viverla normalmente. Sia in sede che in servizio abbiamo attuato misure restrittive per limitare al massimo la possibilità di contagio, anche tra noi soccorritori. Tutti indossiamo la mascherina in sede durante il turno, proviamo la febbre ad ogni inizio turno e abbiamo limitato al massimo l’accesso alla sede a chi non è in servizio. Molti di noi abitano con i genitori anziani o i figli piccoli e ovviamente il timore di portare a casa il virus è alto. Io ultimamente cerco di vedere i miei genitori il meno possibile, anche se non ho sintomi, lo faccio per precauzione in quanto siamo spesso a contatto con pazienti positivi. Fortunatamente oggi abbiamo tutti i mezzi tecnologici per vederci anche a distanza. Croce Rossa Italiana, a livello regionale e nazionale, ha potenziato molto il servizio di supporto psicologico messo a disposizione dei soccorritori, per aiutarli a fronteggiare questo momento difficile”.

Come Croce Rossa come siete impegnati in questa emergenza? Che tipo di interventi fate?
“Come Croce Rossa Italiana di Luino e Valli siamo impegnati in molte attività per fronteggiare questa emergenza. A partire dal servizio di emergenza 112 in ambulanza che come sempre è attivo 24 ore su 24, continuiamo anche a svolgere servizi di trasporto secondari, come dimissioni dagli ospedali o trasferimenti.
Le nostre attività però non si fermano a questo. Abbiamo istituito un servizio che abbiamo chiamato “Adotta un anziano” in collaborazione con la protezione civile e la parrocchia, mettendo a disposizione un numero di telefono per le persone che non possono uscire a fare la spesa o a comprare i farmaci. Uno dei nostri 80 volontari che si sono resi disponibili solo per questo servizio prende contatto con la persona che ha richiesto aiuto e si occuperà di seguirlo settimanalmente. I cittadini che usufruiscono di questa iniziativa su tutta la zona di Luino e comuni limitrofi non sono solo anziani, ma anche persone in quarantena perché positive o in via precauzionale. Altri servizi che la Croce Rossa Italiana svolge a livello regionale sono attività di tipo logistico e presso i centri di coordinamento, la prova delle temperature negli aeroporti e servizi nei call-center per dare una risposta alle richieste della popolazione”.

Vi è capitato di trasportare pazienti positivi al Coronavirus?
“Ci capita quasi giornalmente di essere chiamati per interventi d’urgenza su pazienti che definiamo ‘casi sospetti’ ovvero con sintomatologie riconducibili al coronavirus, oppure su casi conclamati, ovvero pazienti in isolamento che avevano già fatto il tampone ed erano risultati positivi, che si aggravano. Spesso veniamo chiamati anche per dimettere persone ancora positive ma in via di guarigione, che sono ugualmente contagiose”.

Che tipo di dispositivi di protezione avete? A livello di reperibilità come siete messi?
“Questa emergenza ha portato a nuove direttive che modificano i nostri normali protocolli. Cerchiamo innanzitutto di esporre meno soccorritori possibili al rischio durante l’intervento. Su ogni uscita ordinaria indossiamo sempre oltre ai guanti anche la mascherina e gli occhiali protettivi. Si avvicina al paziente solamente il capo-equipaggio e gli altri due membri dell’equipaggio restano in ambulanza e vengono attivati via radio solo se necessario. Non sappiamo mai se il paziente ha omesso di comunicare alla centrale 112 eventuali sintomi sospetti (tosse o febbre) e quindi dobbiamo stare in guardia durante il primo approccio, durante il quale proviamo la febbre e chiediamo se ha tosse. In caso ci fossero questi sintomi l’equipaggio indossa le tute bianche in tyvek con il copricapo, i calzari sopra gli scarponi, gli occhiali e le mascherine ffp2. Al termine del servizio, prima di lasciare il pronto soccorso e ancora prima di toglierci i DPI, effettuiamo una disinfezione completa del mezzo, che ci impiega del tempo prima che questo torni operativo. Alla fine smaltiamo i DPI nei rifiuti biologici e siamo pronti a rientrare in sede. La reperibilità dei DPI è ancora difficile, infatti siamo sempre alla ricerca di mascherine e di tute in tyvek. Dobbiamo anche usarle con parsimonia”.

Al giorno quante telefonate vi arrivano mediamente e di che tipo?
“In media riceviamo dalle 4 alle 10 chiamate al giorno. In queste settimane gli interventi ordinari sono diminuiti rispetto al solito, lasciando purtroppo posto a più chiamate per covid-19. Molte persone che prima chiamavano l’ambulanza per cose poco gravi, ora ci pensano bene, in quanto andare in ospedale oggi è un rischio”.

C’è un intervento di queste settimane che le è rimasto impresso particolarmente?
“Personalmente ogni servizio di questo genere mi rimane impresso. Sono servizi pesanti. A partire dal fatto che non si riesce ad avere un contatto semplice col paziente che sta male, ha paura e noi lo possiamo rassicurare solo attraverso una visiera e una mascherina dai quali si vedono a malapena i nostri occhi. Inoltre dobbiamo chiedere ai parenti di non venire in ospedale e il paziente viene portato via da solo, senza nessun famigliare che possa stargli vicino. Finito l’intervento poi non manca mai qualche momento in cui ci si domandi pensierosi se tutto è stato fatto in massima sicurezza. Basta un errore per mettere in pericolo noi e il nostro equipaggio. Ma spesso non c’è tempo di pensare e arriva già una nuova chiamata”.

Dall’inizio dell’emergenza ad ora la situazione si è alleggerita un minino o la pressione è ancora alta?
“Purtroppo non sembra. Fortunatamente dalle nostre parti non abbiamo mai avuto un numero eccessivo di chiamate per interventi covid-19, ma ad oggi non possiamo dire che la media sia scesa”.

Roberta Sgarriglia