Il calcio professionistico, si sa, ha una forte attrattiva, specie per i ragazzi che sognano di sfondare. Arrivare e rimanere nell’ambiente però non è così semplice, ed è spesso necessario abbassare l’asticella per poter trovare la propria dimensione. Lo sa bene Marco Franceschetti, fondatore e allenatore della France Sport: “Ho rifiutato diverse offerte importanti per stare qui e ne sono molto felice. Il calcio è cambiato tanto negli anni e con esso anche i giovani. Bisogna supportarli”. L’ex Padova, Sampdoria e Verona ripercorre alcune tappe che hanno portato alla genesi della sua squadra, ponendo qualche riflessione sul calcio di ieri e quello di oggi.
Sono passati 15 anni da quando il progetto France Sport ha visto i suoi albori. Dopo tutto questo tempo, è soddisfatto dei risultati raggiunti? Quali obiettivi si era posto all’inizio?
“A dire il vero, non avevo previsioni. Sicuramente sono molto contento di aver creato una realtà diversa dalle altre. All’inizio sono partito con tredici ragazzini, oggi siamo circa 180. Davvero un bel risultato per essere in una piccola cittadina di appena 2000 persone. In più, adesso possiamo contare sul nuovo campo in sintetico, ultimato ai primi di settembre. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di migliorare divertendosi”.

A proposito di Maccagno, come mai ha scelto questa zona per dare vita alla squadra? Lei è originario di Milano…
“Perché da piccolo venivo sempre in vacanza qui con la mia famiglia. Conoscevo bene questa zona e mi è sempre piaciuta, così ho di stabilirmi e di mettere su famiglia qui”.

Prima di creare la France Sport però c’è stata l’esperienza a Venezia come allenatore in seconda, durata solo una stagione. Com’è nata la voglia di creare qualcosa da zero, allontanandosi dalle luci della Serie A e della B?
“È nata per caso. La mia intenzione era quella di allenare, ma mentre frequentavo il corso a Coverciano stavo già valutando quali strade intraprendere. Nel frattempo avevo iniziato a Maccagno, pensando che un giorno avrei lasciato tutto in mano a qualcun altro, ma così non è stato. Più passava il tempo, più mi affezionavo al progetto, rifiutando le opportunità che mi venivano proposte. Mi cercarono Sinisa Mihajlovic e Roberto Mancini, ma di fare l’allenatore in seconda non ne volevo sapere. Venni contattato dall’estero, in particolare dalla nazionale georgiana, ma non avevo intenzione di fare il giramondo. Perciò sono rimasto qui, e devo dire che sulle sponde del Lago Maggiore si sta meglio”.

Lei ha avuto modo di toccare sia il calcio professionistico che quello dilettantistico: com’è cambiato questo sport da quando lei ha iniziato fino ad oggi?
“Difficile a dirsi, perché si tratta di due mondi differenti. In linea generale penso siano stati fatti sia passi in avanti che indietro. Ad esempio credo che in Serie A e B l’organizzazione sia migliorata rispetto al passato, oggi i club hanno un modus operandi davvero professionistico. D’altra parte però è calata nettamente la qualità dei calciatori: il fisico conta più della tecnica. Inoltre in Italia stiamo affrontando un periodo in cui l’andamento generale è quello di affidarsi a giocatori provenienti dall’estero piuttosto che puntare forte sulla crescita dei nostri giovani. Il commissario tecnico Mancini ha lanciato un messaggio forte convocando tanti ragazzi anche giovanissimi, bisognerà capire come reagiranno i club e la Federazione”.

In squadra con lei c’è anche suo figlio, che allena e gioca contemporaneamente: quanto si rivede in lui? E come vede l’approccio dei giovani al mondo del calcio di oggi rispetto a quando era lei a giocare?
“Sinceramente è una domanda che non mi sono mai posto. Non ho mai pensato se potessi rivedermi o meno in lui, perché la mia speranza è quella che si possa divertire facendo questo sport. Le differenze tra la gioventù attuale e quella della mia generazione ci sono, eccome. Noi siamo cresciuti per strada, giocando dovunque capitasse come dei vagabondi. Questo ci permetteva di essere più creativi, riuscivamo ad arrangiarci in un modo o nell’altro. I ragazzi oggi sono più svegli e più reattivi, anche se più abituati a stare a casa. Hanno più possibilità ma spesso non sanno come gestirle, complice anche la mancanza di pazienza e la forte impronta tecnologica. Vedo poca predisposizione a darsi da fare se manca un accompagnamento esterno. Questa però non è una critica, sia chiaro. Se c’è una colpa, essa è riconducibile alla mia generazione, che probabilmente non ha saputo approcciarsi nel migliore dei modi con figli e nipoti”.

Parliamo di calcio giocato: un pareggio e una vittoria nelle prime due giornate di campionato. Inizio promettente per voi. L’obiettivo stagionale è rappresentato dai playoff?
“È una partenza abbastanza in linea con le aspettative, sebbene volessimo i sei punti. Col Ponte Tresa si poteva fare meglio, partita anche condizionata da qualche errore arbitrale, ma non ci lamentiamo. L’obiettivo è sempre quello di divertirci, ma se vinci l’entusiasmo sale ancora di più. Da qualche stagione facciamo molto bene, arrivando più volte terzi ma senza mai agguantare la promozione. Quest’anno vogliamo i playoff, con la voglia di fare meglio”.

Domenica vi aspetta il Varano Borghi, che partita sarà? E chi vede come favorita quest’anno?
“Loro hanno iniziato forte, sembrano promettere bene. Scenderemo in campo con grande rispetto, ma dovremo giocare come siamo in grado di fare. Siamo solo all’inizio, non saprei dire quale squadra sia favorita, anche perché più o meno tutte si sono rinforzate. Noi proveremo a dire la nostra come sempre”.

Dario Primerano

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