Tu vuo’ fa’ l’americano, sient’a mme: chi t’ ‘o ffa fa’?”. Probabilmente Renato Carosone avrebbe parlato così ad Andrea Azzolin se lo avesse conosciuto, non sapendo però che il ragazzo ha le idee chiare. Già, perché l’ex calciatore di VareseLegnano e Sestese ha tutta l’intenzione di rimanere negli Stati Uniti. 
Giunto a Miami Shores nell’estate del 2019 per studiare alla Barry University, il 25enne varesino si è laureato la scorsa settimana e da gennaio comincerà la sua nuova vita lavorativa. In questo capitolo ancora tutto da scrivere, però, non è previsto il calcio, almeno per il momento. Ora per Azzolin è tempo di concedersi un periodo di riposo nella nostra provincia, prima di affrontare il viaggio che lo riporterà in Florida.

Bentornato Andrea e complimenti per gli studi appena conclusi. Com’è andata questa esperienza a stelle e strisce? Quando ci tornerai?
“Raccontare quanto vissuto in America non è facile, ci vorrebbe più di una singola intervista. Sicuramente è stata una grande avventura, da cui ho imparato tanto. Sono partito un anno e mezzo fa con qualche dubbio, oggi posso dire di avere delle certezze e sicurezze in più. Pochi giorni fa ho conseguito un Master in Business Administration e ora sono qui per trascorrere le festività natalizie in famiglia. Il mese prossimo tornerò negli Stati Uniti”.

Ti stabilirai negli U.S.A. quindi?
“Non è certo. Uno studente internazionale ha tempo un anno, da quando si laurea, per trovare lavoro in un’azienda. Una volta ottenuta l’occupazione, allo scadere del periodo annuale concesso, deve ricevere una sponsorizzazione da parte della ditta per continuare a lavorare. Non è scontato che avvenga”.

Il master che hai conseguito è correlato alla tua precedente laurea italiana?
“A dire il vero no. In Italia ho studiato Scienze della Nutrizione e Gastronomia presso l’Università Telematica «San Raffaele» di Roma. Cibo e vino mi hanno sempre appassionato e la mia idea iniziale era quella di fare il nutrizionista, ma poi ho cambiato idea. Ora vorrei lavorare in un’azienda vinicola. Ho deciso di andare oltreoceano perché volevo imparare l’inglese. Le aziende che operano nel settore sono molto attive per quanto riguarda marketing e rapporti commerciali, perciò è fondamentale conoscere la lingua. Ma questa non è la singola ragione per cui mi sono trasferito…”.

Ci sono altri motivi? E quali?
“Ad esempio mi ero stancato di giocare a calcio in Italia. Non avevo più stimoli, non lo facevo più per passione ma solo per ricevere uno stipendio. Quando sei piccolo sogni i grandi palcoscenici, ma quando cresci e ti ritrovi a 23-24 anni tra Serie D ed Eccellenza devi necessariamente ridimensionarti, trovare nuove strade al di fuori del contesto calcistico. Pertanto, il mio desiderio era quello di fare nuove esperienze di vita. Così mi sono rivolto a College Life Italia, un’agenzia che mette in contatto gli studenti italiani con le università americane. Grazie a loro, ho ottenuto una borsa di studio per la Barry University a Miami Shores, iniziando quindi il mio percorso”.

È stato difficile prendere una decisione di questo tipo?
“Sì, decisamente. Non è facile staccarsi dalle proprie radici, sono tanti i pensieri che passano per la testa in quel momento. Inoltre, per me significava lasciare il sogno del piccolo Andrea, cresciuto a pane e pallone. Guardando in faccia la realtà e rendendomi conto di non essere più felice per quel che facevo, ho preso coraggio e mi sono immerso in questa avventura. Sono contento e mi reputo fortunato per aver ricevuto questa opportunità in Florida. È stata dura, ma se guardo la persona che sono adesso rispetto a ciò che ero prima, mi vedo migliorato sotto tutti i punti di vista”.

Varese, Lucchese, Delta Porto Tolle, Mendrisio, Legnano, Sestese e Vergiatese. Nel lasso di tempo che ti ha portato a vestire le maglie di queste squadre, le tue motivazioni calavano. Come mai hai voluto staccare la spina?
“In Eccellenza, come in altre categorie, ci sono i vincoli legati all’età. Tutte le squadre devono quindi schierare un certo numero di giovani dal primo minuto in ogni match. Queste regole inizialmente mi hanno anche aiutato a giocare con frequenza, ma col passare degli anni ho avvertito il peso di questa regola. Superando i limiti d’età, mi sono ritrovato a non essere più considerato «giovane» e in ogni società finivo sempre per essere sostituito da un ragazzo più piccolo di me per via del regolamento. Io non lo accettavo, non lo trovavo corretto. Dovrebbe giocare chi è bravo, chi se lo merita. Vivendo queste situazioni, ho perso gli stimoli per andare avanti. Volevo provare qualcosa di diverso. A volte la vita ti porta di fronte ad un bivio: affrontare nuove avventure oppure lasciare tutto com’è? Io penso che non esista solo il calcio e sono contento di aver raggiunto questa consapevolezza abbastanza in fretta. Altri ragazzi come me hanno in mente solo il pallone ed è bello che sia così, ma la carriera da calciatore non dura per sempre”.

Soffermiamoci su quest’ultimo punto. Tanti ragazzi, inseguendo il sogno di sfondare nel calcio professionistico, lasciano lo studio. Il rischio di non farcela, perdendosi nelle categorie minori, è però alto, specialmente se si supera una certa età. Come si affronta una situazione simile? 
“Questo è un argomento importante e rappresenta uno dei motivi che mi hanno portato a intraprendere altre strade. Ho avuto modo di giocare con persone che avevano oltre 30-35 anni e hanno fatto solamente i calciatori nei campionati dilettantistici, senza quindi aver messo da parte chissà quanti soldi. Ritrovarsi a quella età, magari avendo già costruito una famiglia, ma senza aver mai lavorato né conseguito un titolo di studio, significa ridursi considerevolmente le chance di trovare un’opportunità lavorativa al termine della carriera sportiva. Un’ipotesi del genere per me sarebbe stata un incubo, non avevo intenzione di correre il rischio, dovendo sempre sperare di trovare una società capace di garantirmi uno stipendio. Ultimamente è diventato sempre più difficile per i club avere delle solide basi economiche”.

Torniamo negli Stati Uniti, come definiresti questa esperienza di studio, sport e vita?
“Arrivare in America non è stato facile. Non conoscendo la lingua, avevo difficoltà a capire e a farmi capire e tutto questo mi demoralizzava. Fortunatamente ho conosciuto quattro ragazzi italiani che frequentavano l’università, mi hanno aiutato molto e grazie a loro ho iniziato a carburare. La vita collegiale americana è totalmente diversa da quella italiana. All’interno del campus c’erano strutture di ogni tipo: dalle aule alle mense, dai dormitori ai campi di gioco, fino alle piscine. Sembrava di vivere in un classico film americano. Generalmente avevo lezione alla mattina, allenamento con la squadra di calcio universitaria al pomeriggio e alla sera studiavo. Sei sempre impegnato ma hai comunque la possibilità di svagarti e divertirti. E poi si tratta di Miami, una fantastica città sempre soleggiata, che offre tanto sotto ogni punto di vista”.

Durante la tua permanenza è anche scoppiata la pandemia. Come avete vissuto questa situazione?
“Il lockdown in Florida è stato istituito in estate, quando in Italia iniziavano le riaperture. La città era praticamente deserta e dalle 22 partiva il coprifuoco. Io ho trascorso quel periodo al campus con i miei amici, cercando di tenermi occupato attraverso le attività sportive. Ad agosto, con l’inizio del nuovo anno scolastico, tutto è tornato alla normalità. Bisogna precisare però che la quarantena in America non era rigida come quella italiana. In alcune città della zona non era neanche obbligatorio l’uso della mascherina”.

Quali differenze hai riscontrato a livello sportivo rispetto all’Italia?
“I campionati collegiali sono ben diversi dall’idea che abbiano noi italiani. Vincere il titolo nazionale ha un valore importante, ma si tratta comunque di una competizione unica, senza retrocessioni né avanzamenti di categoria. Trovare gli stimoli non era facile, perché non c’erano particolari obiettivi da raggiungere. Il livello tecnico però era buono, anche perché a giocare a calcio eravamo perlopiù noi studenti internazionali, provenienti quindi da Europa e Sud America. Una volta sul campo, confrontandosi coi propri compagni e con gli avversari, la voglia di impegnarsi viene fuori in maniera naturale. Nonostante ciò, è stata dura approcciarsi anche all’attività sportiva. Si giocavano due partite a settimana, sempre nel pieno pomeriggio. Il caldo era insopportabile per uno che, come me, non era abituato a certe temperature. Alla fine sono riuscito a prenderla con maggior filosofia. In fin dei conti, ero negli States per studiare, non per giocare”. 

Tu sei la dimostrazione che il binomio sport-studio è possibile e ha motivo d’esistere. È stato faticoso studiare e giocare a calcio contemporaneamente?
“In Italia giocare ad un buon livello e studiare in una buona università nello stesso momento è quasi impossibile. Ci sono atenei che prevedono la frequenza obbligatoria alle lezioni e di conseguenza anche un’applicazione continuativa. Pensare di unire tutto questo a una carriera anche solo in Serie D o in Eccellenza, è una grande sfida. Io, ad esempio, ho conseguito un bachelor con una università telematica per poter combinare le due cose. Il sistema italiano non agevola i giovani a studiare e fare sport assieme. Negli U.S.A. è assolutamente normale far combaciare le attività, ti supportano affinché tu possa trionfare tanto nello studio quanto nello sport”.

Nel calcio professionistico italiano è raro trovare degli atleti laureati. Ricordo Giorgio Chiellini, Guglielmo Stendardo e più recentemente Alessandro Spanò, che la scorsa estate si è ritirato per concentrarsi sulla carriera lavorativa. Quando un calciatore di rilevanza nazionale consegue un titolo accademico, la notizia rimbalza sui media, come se si trattasse di un evento anomalo. Tu cosa ne pensi? Hai provato anche tu questa sensazione?
“Secondo me è così. Ho l’impressione che l’opinione pubblica veda i calciatori come persone dedite unicamente a giocare e fare la bella vita. Certo, ci sono atleti a cui piace godere dello status che gli viene attribuito. Penso che sia insita nella società l’idea che i calciatori siano disinteressati alla cultura, ma non è così per tutti. L’aspetto paradossale che ho percepito è il seguente: più sali di categoria, più risulta facile trovare ragazzi che hanno a cuore il loro futuro e decidono di studiare o investire in maniera fruttuosa i propri guadagni; più scendi di categoria, e più diventa probabile incontrare persone che non hanno preso alcuna misura in vista del termine della carriera. Lo dico per esperienza personale, poiché ho avuto modo di confrontarmi con entrambe le tipologie elencate”.

Pensi che il trend stia cambiando?
“Domanda difficile, a cui non so rispondere. Quel che posso dire è che, secondo me, le sospensioni forzate causa Covid hanno permesso ai calciatori di rifletterci su. In quest’anno sfortunato di pandemia, sono sicuramente tanti coloro che non hanno percepito uno stipendio”.

Concludiamo questa intervista con una domanda molto simile a quelle che vengono poste durante i colloqui di lavoro: come ti vedi da qui a 5 anni?
“Mi piacerebbe occupare una buona posizione lavorativa nell’ambito vinicolo. Mi vedo in un’azienda che commercia vino italiano in America, ma non saprei dire se sarò qui oppure a Miami. Dovendo esprimermi, sarei contento di lavorare oltreoceano. Senza dubbio, sarò ancora un appassionato di calcio: quel sentimento non svanirà mai”.

Dario Primerano

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