Una vita sui campi, o meglio, in mezzo al campo a dettare i tempi della squadra. Ora questo tempo per Andrea Martucci sembra essere finito e, come accade a volte nelle storie d’amore, la fiammella della passione è andata un po’ affievolendosi e ha lasciato spazio ad altre priorità come il lavoro e la famiglia composta da Ilaria e dal piccolo Santiago che compirà due anni a novembre. Martucci non ha ancora detto ufficialmente la parola “fine” sulla sua carriera, ma al momento non ha una squadra per la prossima stagione e non ne sta nemmeno cercando. Sta bene così, accanto ai suoi affetti più grandi.

Come stai vivendo questo periodo?
“Mi sono reso conto che sto bene anche senza il calcio. Mi manca un po’ lo spogliatoio, i compagni, la partita alla domenica, che hanno fatto parte della mia vita per almeno due decenni, ma non tanto da farmi pensare di rimettermi in gioco. Per adesso non voglio saperne nulla del calcio e voglio prendermi del tempo per me e per la mia famiglia. Trascorrerò le domeniche in modo diverso e mi va bene così. Petruzzellis, che è un mio grande amico, mi ha proposto di pensare di seguirlo nella sua nuova esperienza al San Michele, ma ho declinato. Magari tra qualche mese ci ripenserò, non si sa mai, ma ad oggi sto bene a casa e senza calcio”.

Negli ultimi due anni e mezzo hai giocato nell’Uboldese. Come vi siete lasciati?
“Mi sono trovato benissimo e ringrazio il presidente, la dirigenza e il mister che sono persone d’oro, vecchio stampo e come non se ne trovano più tante in giro. Sono stati due anni abbondanti molto belli e l’unico dispiacere è che non abbia potuto rendere al massimo come avrei voluto per qualche problema fisico di troppo. A novembre ho avuto fastidi al ginocchio dovuti all’usura e ancora prima ho scoperto di avere una piccola aritmia cardiaca. Dopo il lockdown ci siamo parlati e non me la sono sentita di confermare il mio impegno anche per la prossima stagione”.

La tua carriera è stata lunghissima. Quali sono state le persone più importanti che ti hanno aiutato a crescere dentro e fuori dal campo?
“Sono comasco e ho iniziato a giocare nel settore giovanile del Como negli anni di Preziosi. Ho militato nella Berretti, nella Primavera e infine in prima squadra dove c’era anche Marco Parolo. L’allenatore che porto nel cuore come tecnico e soprattutto come persona è sicuramente Stefano Borgonovo: la sua malattia, ossia la SLA, era proprio all’inizio e ricordo ancora i suoi consigli e i suoi modi di fare paterni. Era una bella persona. Inoltre, una figura fondamentale per me è mia moglie Ilaria. Mi è sempre stata vicina e mi ha aiutato dandomi un parere esterno e aiutandomi a vedere le situazioni da un’altra angolazione. Non è venuta spesso sugli spalti ad assistere alle mie partite, ma per me c’è sempre stata”.

Nella vita di ogni sportivo ci sono delle scelte fondamentali, dei treni che passano e che si devono prendere al volo. Quali sono stati i tuoi?
“Per me sono passati tre treni. Il primo quando avevo 13 anni e giocavo nel Maslianico. Ad una partita di Giovanissimi A a Grandate quello che allora era il procuratore di Kluivert si è avvicinato a mio papà e gli ha proposto di farmi andare al Torino. Avrei vissuto in un convitto e avrei giocato nel settore giovanile granata. I miei, però, non se la sono sentita di farmi andare via da casa così giovane e non posso dare loro torto. A 16 anni ho avuto un’altra occasione: in un torneo internazionale a Salice Terme in cui c’era anche l’Atalanta di Montolivo e Pazzini un procuratore voleva prendermi sotto la sua ala, ma anche allora la risposta dei miei è stata no”.

E il terzo?
“Avevo 19 anni e il Como voleva mandarmi in prestito in Serie D. Se fossi andato alla Canzese, come mi era stato proposto, avrei vinto il campionato e sarei salito nell’allora C2, mentre ho deciso di dire di sì al Calangianus, una squadra sarda dove, pur facendo bene, non mi hanno seguito molto. Una volta tornato al Como, la società è fallita e da lì ho iniziato di fatto la mia carriera da “grande”: Castelletto Ticino in Serie D, Saronno in Eccellenza dove, con Corno, per un punto non siamo stati promossi in Serie D, Roncalli, un’annata favolosa all’Union Villa Cassano in Promozione con Colombo, Giglio e Barban, Busto 81, di nuovo Cassano, Saronno, una parentesi a Cairate e in Svizzera e poi all’Uboldese negli ultimi due anni e mezzo”.

Com’è cambiato il calcio in tutti questi anni?
“Ho notato che il tasso tecnico dei giocatori si è abbassato. Non ci sono più gli attaccanti di una volta, ad esempio, quelli che dettano il movimento come piace a me. Le regole impongono di far giocare i giovani ed è giusto che sia così; alcuni sono bravi e pronti, altri meno. Ciò che mi ha colpito negli ultimi anni, poi, è il rapporto in spogliatoio tra “vecchi” e giovani: una volta c’era una separazione molto netta, ora non c’è una divisione di ruoli così definita. Non so se è un bene o un male, ma questo è un dato di fatto”.

Se per il calcio giocato per ora hai appeso le scarpette al chiodo, ti vedi come allenatore?
“No, per ora no. Qualche anno fa Gheller mi ha proposto di allenare all’Union Villa Cassano, ma la cosa non si è fatta. Se mai accetterò questo ruolo lo vorrò fare molto seriamente e come piace a me. Per ora mi diverto solo con Santiago: è ambidestro e non se la cava male. Non sarò mai, però, un padre che vuole per forza di cose fare giocare a calcio il figlio. Lui seguirà le sue passioni e se farà sport sarò contentissimo perchè lo sport forma, ti fa crescere e ti fa imparare a stare con gli altri. Non forma solo il fisico ma anche il carattere di una persona”.

Laura Paganini

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