Tra i settori più colpiti dalla stretta del governo in funzione anti-Covid vi è senz’altro quello della ristorazione. La chiusura anticipata alle ore 18 stabilita dal DPCM del 25 ottobre assesta un duro colpo a realtà messe già duramente alla prova nel periodo della quarantena. 
Stefano Bianchi, gestore del Prins Willem Pub di Barasso insieme ai suoi due soci, racconta come ha vissuto gli ultimi mesi, tra saracinesche serrate e tentativi di cauta ripartenza, e come questo ulteriore aggravarsi della situazione rischia di avere effetti preoccupanti sulla sua attività, soprattutto per il fatto che il ritorno alla normalità sembra ormai ben lontano.

Quanto è duro dover chiudere ancora i battenti? 
“Sinceramente ce l’aspettavamo già e infatti da tre/quattro settimane avevamo ridotto gli ordini per non avere troppe scorte in magazzino, perché era evidente che questo momento sarebbe arrivato e non volevamo farci trovare impreparati. Per noi è molto dura perché lavoriamo la sera, a partire dalle 18, e nel weekend siamo aperti fino all’una di notte o alle due. In questo periodo, per cercare di attirare la clientela, ci eravamo adattati organizzando aperitivi e altre iniziative che non rientrano esattamente nel nostro core business. Con la chiusura alle 23 registravamo un po’ di perdite, ma in generale, calcolando che stavamo lavorando meno ore, stava andando abbastanza bene. Tutto sommato fino a due/tre settimane fa la situazione non era florida ma sostenibile. Ora invece è cambiata e non si sa per quanto tempo, di conseguenza non ci si può organizzare. Per noi in questo momento è come tenere chiuso. I dipendenti sono in cassa integrazione e saremo noi tre soci a lavorare nel weekend con l’asporto. Non essendo un ristorante, il servizio è ridotto perché, per quanto il menù includa anche hamburger e panini, generalmente la cucina è il 25% del nostro fatturato e il grosso viene dalle consumazioni di bevande. Di solito l’asporto è un’alternativa che si aggiunge al fatturato normale, quindi lo faremo più che altro per non fermarci, perché non siamo abituati a stare con le mani in mano, e per pagare gli affitti e le bollette. A maggio per fortuna avevamo fatto dei buoni numeri in questo modo, così da avere a disposizione liquidità per le spese immediate, ma senza aiuti tutto questo non basta. Prima eravamo aperti tutti i giorni, il mercoledì anche con musica dal vivo, e ormai da febbraio si è fermato tutto, con conseguenze anche per le band e per tutto un mondo giovanile che si muove e si mette in gioco. Nessuno è rimasto escluso dalla crisi e questa perdita di socialità è un effetto collaterale non meno importante di altri”.

Come si è comportata la clientela in questi mesi di convivenza con il virus?
“Più del 90% non aveva bisogno di richiami, mentre una percentuale non riconosceva le norme in sé e in un certo senso metteva in discussione la nostra autorità nel momento in cui chiedevamo di rispettarle. Noi spiegavamo che non eravamo noi a decidere e sforzandoci riuscivamo a gestire la situazione. Sinceramente abbiamo capito bene il motivo dell’iniziale chiusura a mezzanotte, perché dopo una cert’ora la clientela cambia ed è più difficile far rispettare le norme. La sera sul presto ci sono le famiglie, poi arrivano i ragazzi e sul tardi persone meno avvezze a seguire le regole, che spesso arrivano da altri locali, con tutto ciò che ne consegue a livello di attenzione verso gli altri. Chiudere a mezzanotte ci aiutava ad avere una clientela che mangiava da noi e rimaneva li più tempo, quindi riuscivamo a gestirla meglio, e la stessa cosa quando la chiusura era stata anticipata alle 23”.

Da proprietario di un’attività, trovi che le misure di contenimento prese dal governo nell’ultimo periodo siano state giuste?
“Una cosa che ha aiutato noi titolari, e che secondo me andava fatta prima, è stata la limitazione del numero massimo di persone al tavolo, che prima era di 6, poi di 4, altrimenti i clienti spostavano le sedie e facevano di testa loro. Per quanto li richiamassimo, non avendo l’autorità di una forza pubblica non era sempre facile e ci trovavamo costretti a mandarli via dal locale. Questa misura, insieme alla riduzione degli orari, sembrava utile, magari senza dover arrivare alla chiusura di adesso, ma visto l’aumento dei contagi non si sa se avrebbe funzionato, perché dopo una settimana ci siamo fermati. Ora diventa difficile capire come potrebbe essere la riapertura in futuro e quali norme si potrebbero adottare per mantenere la situazione accettabile”.

Di che aiuti avete potuto beneficiare fino ad ora?
“La volta scorsa abbiamo fatto richiesta del prestito di 25.000 euro. I lavoratori a chiamata hanno ricevuto i 600 euro ad aprile e a maggio, mentre noi come società abbiamo ottenuto i 600 euro a marzo e l’aiuto di aprile per le aziende con un fatturato inferiore ai 400.000 euro. Ora con il decreto Ristori dovrebbe arrivare un contributo proporzionale con cui dovremmo riuscire a pagare le spese”. 

Quanto è difficile adattarsi a cambiamenti in continua evoluzione?
“La cosa che ci costa più fatica è che le imposizioni vengono date con una rapidità pazzesca e arrivando all’improvviso ci penalizzano ulteriormente: se le merci sono già state acquistate e il programma per la settimana è già pronto, l’attività viene completamente stravolta. Questa difficoltà di programmazione ha conseguenze anche per i turni: se sono già state fatte le dichiarazioni sul portale, poi devono essere stornate all’ultimo momento con il rischio che alcune non siano recepite dal sistema. Una cosa, poi, non è stata ancora chiarita: in Lombardia l’ordinanza di settimana scorsa introduceva il coprifuoco alle 23, ma il DPCM consente l’asporto fino alle 24, quindi la domanda è: in che categoria rientriamo noi? È stato detto, infatti, che le regioni possono inasprire le norme nazionali, ma anche su questo punto non c’è chiarezza e l’associazione commercianti ha fatto richiesta ai carabinieri di Varese per capire quale delle due norme dobbiamo seguire”.

Economicamente quanto avete risentito, e potreste risentire ancora, della situazione?
“Abbiamo riaperto il 18 maggio e fino a metà giugno non abbiamo fatto molto, poi c’è stato un cambiamento inaspettato nella clientela e il lavoro è aumentato considerevolmente, al punto che abbiamo dovuto assumere nuove persone per coprire chi si era già organizzato per le vacanze. Almeno inizialmente, le misure di riduzione dei posti non si sono sentite perché abbiamo potuto disporre di un’area esterna molto grande grazie a un accordo col comune. Con i posti fuori e quelli ridotti all’interno, paradossalmente abbiamo lavorato di più dello stesso periodo negli altri anni. Le limitazioni si sono sentite di più da metà settembre, quando lavorando solo all’interno il numero dei posti era la metà rispetto al normale. Questa riduzione incide tanto perché per un locale come il mio, che ha più di 250 metri quadrati di spazio, con una ventina di tavoli, alcuni da 2 e altri da 5, comporta almeno il 30% di perdita rispetto al volume d’affari dell’anno prima. Paradossalmente, anticipando l’orario di apertura, stavamo riuscendo a contrastare le difficoltà del periodo, ma con questo ulteriore inasprimento un po’ alla volta il fatturato è diminuito. Essendo restati chiusi due mesi a marzo e trovandoci ora in questa situazione senza sapere fino a quando, rispetto all’anno scorso siamo sotto del 30%, nonostante l’estate sia andata bene. Il rischio è che questi mesi portino a un calo del 40%, che sarebbe difficile da gestire, anche perché prima di inizio aprile non crediamo di poter tornare a svolgere un’attività simile a quella degli altri anni. Temiamo che le restrizioni nel nostro settore causino grosse difficoltà fino alla bella stagione, ovvero fino a quando si potrà tornare a utilizzare l’esterno. Serve un aiuto veloce e concreto da parte delle istituzioni per questi mesi di attesa, se no sarà difficile riuscire a riaprire”. 

Silvia Alabardi

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