Il tempo che passa e scorre inesorabile ci ricorda che l’1 marzo di dieci anni fa ci lasciava Tarcisio Vaghi, allenatore conosciutissimo non solo a Varese e provincia – aveva allenato per anni a Castellanza, Legnano e, una volta maturo e pronto, era approdato in Pallacanestro Varese come assistente in serie A e allenatore di gruppi giovanili -, uomo di grande educazione e profondità apprezzato per queste qualità in tutta Italia.
Tarcisio ci ha lasciati nel 2011, devastato fisicamente e prostrato mentalmente da una terribile leucemia, ma prima di andarsene, con un gesto da persona di grandissimo spessore, ha dato vita ad un’Associazione Onlus – “Cestisti fino al Midollo” – che si occupa di diffondere capillarmente la cultura della tipizzazione e donazione di midollo osseo, le pratiche mediche più importanti ed utilizzate per cercare di combattere questa terribile malattia ematica. “Cestisti fino al midollo”, il “Tarci”, con una brillante intuizione l’aveva chiamata così, in questi dieci anni ha organizzato in provincia di Varese e in tante altre città lombarde numerose giornate durante le quali centinaia di giocatori di pallacanestro, richiamati dal tam-tam e spinti dal desiderio di onorare un amico, si sono sottoposti a tipizzazione, primo esame diagnostico valido per capire chi, eventualmente, può essere idoneo ad entrare nella cerchia dei donatori di midollo.
In questo decennio, grazie all’intervento di “testimonial” prestigiosi – Andrea Meneghin, Gianmarco Pozzecco, Danilo Gallinari, Hugo Sconochini, Denis Marconato per tutti -, il mondo della pallacanestro è intervenuto unito, coeso e solidale nel nome di una causa nobilissima che, è comprensibile, ci riguarda tutti. Tarcisio, quindi, non ci ha davvero lasciati perché il ricordo della bella persona con cui in molti abbiamo avuto il privilegio e la fortuna di dividere momenti cestisticamente felici resterà per sempre. Ma, di più, certamente più importante e significativa, resterà l’Associazione da lui voluta, nella quale, resistendo a indicibili dolori e a prezzo di durissimi sacrifici, aveva profuso le pochissime energie rimaste.
Nel salutarlo, ecco il ricordo intimo e straziante che amici e famigliari gli hanno dedicato. Nel leggere queste parole, se mi è concesso elargire un paio di suggerimenti, servono prima di tutto una buona predisposizione d’animo, poi quello che ritengo essere un adeguato, delicato e commovente sottofondo musicale: la “Cavatina” di Stanley Myers, brano che fa parte della colonna sonora del film “Il Cacciatore”.
DEDICATO AL “TARCI”
Per parlare di Tarcisio voglio e devo fare delle premesse. La prima è riferita al brano musicale che ho scelto. Uno struggente, dolcissimo e toccante pezzo adattato per chitarra dal musicista Stanley Myers e utilizzato dal regista Michael Cimino per il film “il Cacciatore”. C’è ovviamente un perché dietro alla mia scelta. E non si tratta solo dell’emozionante bellezza del brano. E’ un qualcosa di più. E’ un ricordo che, legato al film, trascina la memoria e la deposita su due fotogrammi: la caccia al cervo caratterizzata, però, dall’onesta filosofia di “un colpo solo” e il ritrovarsi di vecchi amici che, graffiati dal tempo e feriti dalle vicende della vita, si riuniscono per ricordare Nick, un altro caro amico tragicamente scomparso. Ecco, mi piace pensare che quelle scene, così delicate, a loro modo intime, avrebbero catturato anche l’attenzione di un uomo attento come il Tarci.
Ecco, mi piace pensare che la partenza di Tarcisio, certamente accarezzata da istanti pieni di intimità, sia stata, anche, accompagnata dalle note uscite da quella chitarra.
La seconda premessa è riferita alla sequenza delle testimonianze. Qualcuno forse si stupirà di trovare quella di Stefano Antonetti prima dei ricordi, delle parole, delle considerazioni del papà di Tarcisio, il signor Angelo, e della cara Zia Mariuccia, che per tanti anni ha seguito il Tarci con lo stesso amore della mamma Adele, prematuramente scomparsa. Qualcuno, dicevo, forse si stupirà. Non Angelo e Mariuccia che, al contrario, hanno apprezzato la straordinaria disponibilità e l’enorme affetto che Stefano, nel corso degli anni, ha regalato, e regala tuttora, al carissimo figlio, all’amatissimo nipote. Giusto, quindi, iniziare da Ste, che personalmente ringrazio per aver dimostrato incredibile sensibilità e purezza di idee.
STEFANO ANTONETTI
“Premessa: in questi anni mi sono sempre chiesto perché Tarcisio abbia scelto me per accompagnarlo verso il “lato oscuro della luna”. Perché tra i suoi amici, ne aveva tanti, anche di vecchia data, abbia puntato su di me il dito quasi a volermi dire: “Ste, devo partire per un lungo viaggio. Te la senti di fare un pezzo di strada al mio fianco?”. Ed il viaggio è stato lungo per entrambi. E la strada percorsa insieme è stata tanta. Piena di chilometri, di sorprendenti rettilinei, di buche vigliacche. Di momenti bellissimi, pieni di speranza, di periodi bastardi, duri, che ti spaccano in due il cuore. E ti rovinano le budella.
Ho vissuto accanto a Tarcisio le sue ultime ore. Le ore strazianti che precedono la fine. Ma anche le ore che hanno preceduto le ultime interminabili settimane e quelle, a volte più lievi, degli ultimi, contrastanti, mesi. Ho vissuto, anzi, abbiamo vissuto tutto quel tempo uno accanto all’altro. Come in una bolla. Entrambi sospesi. Lui in quel letto dell’ospedale di Pavia. Io seduto. Sempre seduto. Sul sedile della mia auto nei viaggi, roba da pilota automatico, Varese-Pavia-Varese. Sulla sedia che arredava, si fa per dire, la sua disadorna stanzetta. Sulle panche del lungo corridoio del Reparto di Ematologia. Seduto. Come, ad un certo punto, le nostre speranze.
Quella sera in cui il medico che lo seguiva uscendo dalla sua stanza scrollò leggermente il capo dicendomi: “La malattia ha ripreso a correre. Ho l’impressione che stavolta, faremo fatica a riprenderla”.
Bella, ma spaventosamente tragica, la similitudine sportiva. La corsa, la gara. Essere uno, il Tarci, contro l’altra: la leucemia. Chi arriva prima in fondo, vince. Forse…
“Ma Tarcisio, da vero uomo di sport, di campo, abituato a lottare, l’aveva accettata, ‘sta cosa. E negli ultimi mesi stava giorno e notte al computer per rubare qualche centimetro alla malattia che, inesorabile, avanzava. Centimetri volevano dire: leggere fino allo sfinimento, informarsi, mandare mail, inviti, scrivere relazioni, telefonare chiedendo aiuto a tutti. Sforzi tremendi, i suoi. Nei pochi e sempre più rari momenti di serenità che la malattia gli concedeva, Tarci si sbatteva come un matto per rendere sempre più bella, forte e viva la sua Onlus “Cestisti fino al midollo”. La stupenda creazione che ci ha lasciato della quale, in tanti, anche nel basket, non hanno ancora capito la grandezza. Anzi, come nel celebre film: la Grande Bellezza.
“Stefano: hai fatto quella cosa che ti avevo chiesto? Hai telefonato a Tizio? Hai mandato la mail a Caio? Sei andato a recuperare quel materiale? Ma tu lo sai che in Germania hanno il quadruplo dei nostri numeri? Hai organizzato tutto per bene per il ritrovo di sabato e domenica? Quanti prelievi abbiamo fatto ieri a Varese?Quanti sono i nuovi iscritti? Hai? Fai? Sei? E così via quando, nei periodi in cui la terapia diventava sempre più debilitante, mi aveva giustamente eletto a suo segretario. Confesso: in alcuni momenti l’ho sinceramente detestato per quanto mi ha rotto le balle. Ma lui li capiva i miei momenti di debolezza, allora allentava di qualche millimetro la corda e trovava il modo di farmi ridere con una battuta”.
Straordinaria presenza, la tua…
“E’ stato duro e difficile anche per me e per i miei famigliari. Ci conforta l’aver portato a casa una grande, meravigliosa esperienza di vita della quale, con spirito positivo, ricorderemo i momenti di azzurro. Perché in mezzo, ovviamente, ci sono stati anche periodi tranquilli. Lo spazio per una vacanza fatta tutti insieme. Il Natale passato con i miei famigliari, con sua papà Angelo e sua Zia Mariuccia. Qualche festa dei miei figli. Alcune partite di pallacanestro viste insieme. Ore sempre troppo brevi, però. Scandite sempre, sempre, sempre dalla sua enorme forza.
Una volta sola l’ho visto perplesso, forse preoccupato. Quando, dopo qualche settimana ininterrotta di ricovero, osservando con attenzione cosa succedeva intorno a lui, aveva capito il “giro delle camere”. Un lunedì pomeriggio in cui stiamo parlando di basket cazzeggiando sui risultati del giorno prima, mi interrompe, con un segno della testa mi indica una cameretta in fondo al corridoio, vicino all’ascensore e mi fa: “La vedi quella stanza là in fondo? E’ quella della morte. Ti ricordi il ragazzino che stava due stanze più in là? Ad un certo punto lo hanno spostato là in fondo e poi, puff, sparito. Più visto! E pian piano tutti ci stiamo avvicinando alla meta. Bella storia, eh, Stefano?”
Così, quando gli infermieri sono andati col lettino-barella per spostarlo là, in fondo, lui che li aveva già sgamati mi dice: “Chiama mio papà e digli che gli devo parlare. Poi, già che ci sei, fammi preparare il vestito di cui ti avevo già parlato”.
Così, ricordo bene quel pomeriggio. Con i minuti del Tarci ormai agli sgoccioli. Come quando da giocatore, o da allenatore, capisci che ormai la partita è persa. Quel pomeriggio, dicevo, ho fatto una volata Pavia-Cerro Maggiore-casa sua-Pavia, per ritirare, appunto, il vestito, tornare in fretta in ospedale e riportarlo a casa. Ecco, quelle tre ore trascorse in macchina, da solo, a ripensare a tutto quello che era Tarcisio, le rivivo molto spesso quando, da solo, mi ritrovo di nuovo sulla strada. In questi anni mi sono chiesto tanto volte perché hai scelto me, ma da tempo ho smesso di farmi questa domanda. Mi basta la risposta: “E’ stato bello, Tarci. Ed è stato un privilegio, un onore, una splendida gratificazione camminare insieme a te. Grazie”.
ANGELO VAGHI
Papà Angelo, nonostante il tremendo, continuo, bruciante dolore, non ha trasformato la sua casa in un mausoleo dedicato a Tarcisio. Eppure, tutto nel signorile e decoroso appartamento di Angelo, ti parla di Tarcisio. Qualche sua foto appesa alle pareti e soprattutto la sua camera. Una stanza nella quale, appena entrato, puoi vivere, sentire, toccare, respirare i sogni di quel ragazzo che è stato il Tarci. Tutto, lì dentro, lì intorno, ti parla di pallacanestro declinata col suo nome: Tarcisio Vaghi. Poster, foto di squadre, di giocatori, palloni, coppe, medaglie, maglie, indumenti da gioco. Frammenti di una divorante passione. Frammenti spezzati. Ma Angelo, quando si guarda attorno tiene tutto, con la lacerante certezza di non avere più nulla. Per questa ragione gli abbracci, a quest’uomo indifeso nel suo dolore, non dovrebbero mai mancare.
“Tarcisio è stato il figlio perfetto. Il ragazzo che, potendolo, rivorrei tale e quale: affettuoso, serio, con personalità, carattere forte, stile, simpatia, intelligenza, sensibilità, disponibilità, generosità e, credimi, mille altre qualità che lo hanno reso un uomo completo, apprezzato, rispettato, amato e benvoluto da tutti. Un uomo cui le vicende della vita hanno chiesto, anzi, imposto di crescere e maturare prima del tempo. Tarcisio, infatti, già a 13 anni aveva capito che la sua adolescenza non sarebbe stata l’età della spensieratezza, dei comportamenti leggeri e soavi che caratterizzano i “teen-agers”. La leucemia che aveva colpito anche Adele, la sua mamma, aveva costretto Tarcisio a guardare il mondo con una prospettiva diversa da quella dei suoi coetanei. I cinque anni e mezzo di indicibili sofferenze patite da mia moglie (mamma Adele è morta nel 1988 ndr) avevano obbligato Tarcisio a preparare due esami di maturità: quello per raggiungere il diploma al Liceo Scientifico; quello per conquistare, a nemmeno 19 anni, quindi in largo anticipo sui tempi, la maturità richiesta dalla vita. Due traguardi che Tarcisio raggiunse con 60/60″.
Aiutato, immagino, da lei, dalla zia e dallo sport. “Io e Mariuccia siamo stati accanto a Tarcisio in tutti i modi perchè consapevoli che un ragazzino, messo di fronte per un periodo così lungo di calvario, non doveva essere lasciato solo. Poi, è vero, confermo, lo sport ha avuto un ruolo fondamentale per la sua crescita sana perchè gli ha offerto ampi spazi di serenità”.
Sport, quali? “Dico la verità: da appassionato di ciclismo ho tentato in tutti i modi di metterlo in sella, ma non sono mai riuscito nell’impresa. In seconda battuta ho provato la via del calcio, ma anche in questo caso senza ottenere risultati concreti. Tarcisio, anche all’oratorio, era attratto solo dalla pallacanestro. Il basket, prima nelle giovanili dell’Olimpia Legnano, interrotte bruscamente a causa di seria frattura del femore; poi coi primi passi nella carriera di allenatore, è diventato la sua vita, ma anche la nostra vita”.
Infatti, tutti vi ricordano come una presenza costante sui campi. “Abbiamo sempre cercato di seguirlo, con discrezione pari solo all’affetto, fin dagli anni trascorsi come allenatore delle squadre giovanili del Castellanza Basket. Non capisco granchè di pallacanestro, ma credo proprio che Tarcisio, in panchina, ci sapesse fare. Così, dopo le stagioni alla Pallacanestro Legnano in serie C1, quando mi parlò dell’ipotesi di abbracciare la scelta del professionismo non ebbi alcun dubbio: “Vai tranquillo Tarcisio, se pensi che la pallacanestro possa essere la tua strada imboccala pure senza voltarti indietro. Un aiuto da noi lo riceverai sempre”.
Quando ha capito che Tarcisio aveva conquistato il suo sogno? “Penso che i tre anni trascorsi a Legnano siano stati quelli fondamentali per maturare l’esperienza decisiva come capo di un gruppo. Però, per rispondere alla domanda, direi che l’anno a Varese, quello del suo esordio in serie A e anche in Uleb Cup a Queluz in Portogallo, sia stato quello determinante per far crescere dentro di lui delle certezze. Poi, è stato bellissimo vederlo soddisfatto, felice e realizzato nel ruolo di allenatore a Castelletto Ticino, Teramo e in Svizzera”.
La tappa elvetica è stata l’ultima prima della malattia. “Nella mente mi resteranno tante immagini: la sua patologia, il decorso lungo, sofferto e invalidante, la lucidità con la quale ha affrontato tutto quello che gli è capitato. Pensa che anche durante le ultime settimane, quelle in cui si era reso conto della spaventosa aggressività della malattia, imponeva al professore che l’aveva in cura di tranquillizzarmi, di non preoccuparmi, di vivere serenamente. Come se fosse stato facile. Però, se è vero che nei momenti peggiori gli uomini trovano la forza di elaborare nuove idee, ecco che mio figlio ha avuto il tempo per regalarmi un’idea incredibile. Quella dei “Cestisti fino al Midollo”, Onlus della quale sono, con grande orgoglio, il Presidente. Un’iniziativa fantastica che vive grazie a lui e rispecchia fino in fondo la sua personalità perché Tarcisio era un altruista naturale, sempre disposto a pensare agli altri prima che a se stesso. I primi 500 tipizzati sono tutta opera sua. I “Cestisti” sono l’unico forte legame che mi rimanda a Tarcisio e che mi permette di vivere ancora nell’ambiente che per tanti anni è stato il suo. E vivere è il termine giusto, perfetto perché in realtà sono morto con lui quel giorno di marzo del 2011 e, oggi, non ho più nulla da dare, né da dire. Se non vuote parole di circostanza”.
FRANCO BOSELLI
“Tra i motivi, non detti, che allora mi spinsero a scegliere la Pallacanestro Legnano c’era un “tale” Tarcisio Vaghi del quale Silvietto Saini parlava spesso e con grande entusiasmo. Devo dire che la mia curiosità di conoscerlo fu soddisfatta positivamente. Per questa ragione non mi perdonerò mai di non averti salutato come avrei dovuto. Per questa ragione non mi perdonerò mai di non averti detto, guardandoti negli occhi, “Tarci, sei proprio una bella persona!”.
MATTEO DELL’ACQUA
“Non si molla, Teo. Non si molla di un millimetro. Non si molla un cazzo, Teo. Non si molla un cazzo, garantito…”
“Scusa la crudezza della frase, ma di Tarcisio Vaghi mi rimarranno impresse, per sempre, le parole pronunciate l’ultima volta che ci siamo visti. Circostanza triste perchè purtroppo lo incontrai per ragioni professionali. Tarci mi aveva riferito di qualche problema all’occhio destro, una complicanza della malattia, e mi aveva chiesto se potevo fargli una visita domiciliare. Sebbene fosse molto debole e in condizioni fisiche davvero terribili trasmetteva ancora un incredibile senso di forza. Le parole e la grande determinazione, è vero, tradivano l’evidente malessere, ma non mi sarei stupito nel vederlo scendere dal letto e, con gesti rapidi, prepararsi per l’allenamento. Insomma: lo stesso “Tarci” che avevo conosciuto. Quello che in palestra era capace di farti vomitare dalla fatica pur di tirarti fuori il 150%. Lo stesso che con quel semplice ma sincero: “Io voglio te come playmaker della mia squadra e ho scelto te come mio allenatore in campo. Ci stai o no?…”, mi aveva convinto a girare la macchina, già indirizzata verso Oleggio, e puntarla verso Legnano. Lo stesso che, alternando rabbia e serenità, era capace di urlarti dieci volte di fila “Vaffanculo, vaffanculo…!” e poi di abbracciarti con tutto il calore umano possibile. Quella calda umanità nei rapporti che, dopo un iniziale periodo di rodaggio e comprensibile distanza, si era trasformata in un’amicizia vera, solida, duratura. Un rapporto fatto di risate, prese in giro, consigli disinteressati e discussioni impegnate che adesso mi mancano. Tanto. Ciao, caro Tarci…”.
EMANUELE GEROSA
“Devo molto ai miei allenatori. Devo tutto al Tarci. Non tanto dal punto di vista tecnico perché, in quel senso, ogni coach mi ha insegnato qualcosa di importante. Però, sotto il profilo umano e dal punto di vista delle motivazioni con Vaghi ho avuto un rapporto speciale. Unico. Tarcisio ha lavorato più di tutti gli altri sulla mia personalità dosando alla perfezione indicazioni tecniche e di altro tipo. La differenza con Roberto Piva, per esempio, era netta. Roberto mi trattava da soldatino e mi dava grande fiducia, ma era una fiducia sempre racchiusa nell’esecuzione rigorosa e attenta delle sue idee. Tarcisio invece modulava le consegne a seconda di chi aveva di fronte. A me diceva: “Mentre giochi devi tirar fuori la tua vena d’artista, il tuo estro creativo. Ricordati la regola dei quattro possessi. Uno lo devi giocare per Maurizio Maggiorini. Uno per Luca. Con gli altri due fai cazzo che ti pare, mi basta che te li giochi con personalità e carattere. Con Vaghi sono passato da soldatino esecutore, a sergente in grado di prendere delle decisioni. Qualche volta Capitano. Qualche volta anche più su”.
Non a caso è stato Vaghi a rivolerti a Legnano. “Vero, ma prima di farmi tornare aveva voluto firmare una sorta di accordo: “ Se hai intenzione di tornare e giocare “da sponda” puoi pure restare a Boffalora. Per la mia squadra ho bisogno d’altro e vorrei che tu giocassi sentendo dentro una responsabilità da giocatore vero”.
Cosa ti è rimasto più impresso dei suoi anni legnanesi? “Di quelle stagioni ricordo i suoi screzi, spesso piuttosto accesi, con la società. Tarcisio aveva scelto una linea di condotta strana, comunque inconsueta: lui e la squadra da una parte, la società dall’altra. Nel suo andare controcorrente aveva individuato i “nemici” da combattere: alcuni esponenti di quella che secondo lui era una linea societaria anacronistica. Una strategia studiata per compattare ulteriormente il gruppo. La società avrebbe ovviamente preferito un allenatore più “aziendalista”, ma Vaghi era uno spirito troppo libero per accettare imposizioni o dettami da seguire. Per lui esistevano solo la pallacanestro e i suoi giocatori dai quali sapeva tirar fuori ben più del 120%. E, per dirla tutta, Tarci non andava d’accordo con quei giocatori che non volevano avere uno stretto rapporto con lui. Vaghi ti guardava in faccia, ti parlava con grande schiettezza e sincerità. Qualche volta, lo dico per esperienza diretta, ti sbatteva sul muro verità sgradevoli da accettare, ma terminato lo ”shampoo” sapeva sempre come tirarti dalla sua parte: “Gerry, mandiamoci pure a quel paese. Insultiamoci a vicenda, non mi interessa. Le cose che contano alla fine sono tre: dai il massimo possibile per la squadra, restiamo sempre uniti “al pezzo” e, più di tutto, amici come prima”.
Già, amici. E quello che oggi mi manca di più del Tarci è proprio questo: la sua grande, splendida, meravigliosa amicizia.
Massimo Turconi