Io me lo immagino, anzi, lo vedo proprio Andrea Bottelli che, consumato dalla fatica dell’allenamento, ma raggiante di felicità infila il cancello d’uscita della Scuola Calcio Sant’Ambrogio e corre a prendere la sua biciclettina. Che non c’è più perché qualcuno, marrano, mariuolo e ladrone, l’ha rubata.
Io me le immagino, anzi, le vedo proprio le lacrime, misto di dispiacere, rabbia e sconforto, che immediatamente riempiono gli occhi di Andrea e, copiose, scendono a rivoli solcandogli le guance. 
Cerco di immaginarmi anche il seguito raccontando, con la logica del “What if?”, la storia che non c’è stata.

Dunque, Andrea, esce dal centro sportivo, inforca la sua bicicletta e soddisfatto continua a giocare a calcio sviluppando una carriera nella quale, quasi sicuramente, sarebbe arrivato a buonissimi livelli anche nel mondo “pallonaro”. Andrea infatti col pallone fra i piedi ci sapeva fare e, di più, era un classico “mancino di Dio”: tocco morbido, estro, fantasia e talento. Insomma, visto dalla parte del “football”, abbiamo probabilmente perso un ottimo calciatore, ma guardata con gli occhi della palla a spicchi, possiamo dire, con pari soddisfazione, di aver guadagnato un buonissimo giocatore, nonché un ragazzo che per tantissimi anni ha onorato il nostro sport. Una vicenda cestistica che, sotto il profilo cinematografico, nasce da una scena tratta da “Ladri di biciclette”.
“Ovviamente manca la controprova ma – sorride di gusto Bottelli -, mi piace pensare che, forse, se non avessi subito il furto della mia adorata bici, non avrei mai lasciato il calcio. I fatti però si sono svolti in maniera differente ed io, scoraggiato e arrabbiato, da quel giorno ho detto a me stesso: col calcio ho chiuso. Con grande delusione di mio papà Giancarlo che, ex calciatore e grande appassionato di pallone, sognava di vedermi tirare in porta”. 

Il mitico Giancarlo Bottelli, da anni preziosissimo collaboratore della Pallacanestro Varese, si sarà consolato vedendoti tirare, peraltro abbastanza bene, il pallone in un cestino. “Penso di sì – risponde Andrea -. Penso che mio padre sia comunque contento del mio percorso perché ho fatto sport a buonissimi livelli e, nondimeno, l’ambiente sportivo è stato fondamentale per darmi una quadratura, delle regole e, meglio, uno stile di vita che ancora mi appartiene”.

Torniamo alla questione del velocipede: dopo il furto cosa succede .
“Nei giorni successivi al fattaccio incontro Alberto Lauri, a quei tempi dirigente del settore giovanile Pallacanestro Varese, il quale mi chiede di provare con il basket. Così, come tutti quelli che hanno fatto pallacanestro in città, metto anch’io il piede nella storica “Rainoldi”, palestra in cui incontro, tra gli altri, due ragazzini: Mario Di Sabato e Andrea Meneghin. Tutti ovviamente inconsapevoli del fatto che, insieme, avremmo formato un terzetto niente male”.

Perchè il soprannome Jack?
“Perchè durante un acceso 2 contro 2 – io e mio fratello contro Macchi e il Menego -, dopo una mia azione difensiva per così dire “intensa”, Meneghin urlando dice che gioco come Jack lo Squartatore. Da quel pomeriggio, per tutti, sono Jack”. 

Come prosegue la tua avventura nelle giovanili?
“Gli inizi, come puoi capire, non sono esattamente confortanti perché il gap tecnico che mi separa dagli altri ragazzi è ampio. Alcuni miei compagni infatti avendo alle spalle quattro-cinque anni di minibasket si muovono già come dei fenomeni, così gli allenatori valutando carenze tecniche e fisiche mi spediscono inevitabilmente nei gruppi B e C per “fare pratica”. Però il basket mi piace, imparo in fretta e nel giro di un paio di campionati, Propaganda e Ragazzi, sono pronto, anche fisicamente, per entrare nella rosa delle squadre “buone”, prima fra queste il gruppo Allievi che cresce bene e, poi, avendo in squadra un “fenomeno naturale” come Andrea Meneghin, tutto diventa più semplice. Non a caso l’anno della categoria Cadetti, pur schierando pochissimi nati nel ’73 -, io, Mariolino e Ceria -, essendo quindi largamente sotto età raggiungiamo l’obiettivo finali nazionali che si giocano a Trapani. In questa manifestazione, in cui sono presenti squadre davvero fortissime che in seguito daranno tanti giocatori alla serie A, ce la caviamo abbastanza bene e pur finendo al decimo posto che la giochiamo alla pari contro tutti. Però, di fatto, la mia carriera a livello giovanile si conclude con questo exploit sia perché a livello juniores non ho risultati particolari da ricordare, sia perché, per mia grande fortuna, dirigenti e allenatori mi aggregano abbastanza presto al gruppo della serie A”.

Cosa provi in quel momento?
“Si tratta di una sensazione difficile da rendere a parole. Analizzata oggi, con gli occhi di una maturità spero certa e acquisita, posso affermare che si trattava di una totale ed esibita “non consapevolezza”. Nè io, nè Mariolino, nè gli altri ragazzi che a turno ruotavano in prima squadra avremmo saputo spiegare, e tantomeno ragionare, su quell’improvviso cambiamento. Infatti, nel giro di poche settimane, complici i gravi infortuni capitati a Meo Sacchetti e Max Ferraiuolo, passiamo dal ruolo di  tifosi sempre presenti in Curva Nord all’essere addirittura compagni di squadra di Reggie Theus, Eddie Lee Wilkins, Paolo Conti, Cecco Vescovi e soci. Solo a ripensarci mi vengono i brividi ancora adesso. Figurati poi quando, in modo del tutto inaspettato, mi sono ritrovato anche sul parquet, in A1. Siamo onesti, ho avuto la fortuna di vivere una bella vicenda e una storia da raccontare non fosse altro perchè i suoi contorni hanno dell’incredibile”.

Bhe, incredibile o meno, l’orgoglio di vedere il tuo nome nell’albo d’oro di LegAbasket rimane.
“Un albo che tra l’altro – sottolinea Andrea – non mi rende merito perchè la pagina delle statistiche totali è purtroppo abbastanza imprecisa. Invece, nella pagina dedicata si può notare che in serie A ho giocato “ben 13 minuti” e ho anche segnato “ben 4 punti”: 2 in casa contro Trapani con 2/2 ai liberi e 2 in trasferta a Milano contro la Philips, per di più in faccia “Baby Gorilla” Dawkins il quale, da uomo buono e generoso, mosso a compassione mi avrà fatto certamente tirare. Per me si tratta di momenti speciali e ricordi ovviamente indimenticabili”.

In quella stagione, culminata con una clamorosa retrocessione, hai avuto a che fare con un personaggio controverso come Theus: cosa ricordi di Reggie?
“Ho il ricordo di un uomo strano, che si sentiva una stella e nei suoi comportamenti, diciamo così “particolari”, confermava di volerlo essere sempre. Reggie a suo modo era simpatico ma, come dire, di una simpatia “fredda” e distante. Noi giovani seguivamo Theus passo dopo passo perchè, altra sua stranezza, cambiava le scarpe quasi ogni settimana e in spregio alla parola povertà le buttava, praticamente nuove, nel cestino della spazzatura. Alla fine dell’allenamento aspettavamo che tutti uscissero dallo spogliatoio per andare a recuperare le scarpe suddette per poi regalarle ai compagni di squadre delle giovanili. Tuttavia, più che di Reggie, voglio raccontarti un paio di cose a proposito di Wilkins. Eddie Lee invece era l’esatto opposto di Reggie. Un uomo spassoso, alla mano, umile, estroverso, compagnone sempre disponibile e generoso. Conservo ancora gelosamente la maglia da gioco originale del New York Knicks che mi ha regalato e ricordo che all’allenamento del sabato mattina scommetteva con coach Bernardi puntando le solite 100.000 lire sul fatto che nella partita del giorno avrebbe preso più di 10 rimbalzi. All’allenamento del martedì Wilkins entrava trionfante in spogliatoio sventolando il foglio delle statistiche, lo consegnava a Bernardi e dopo aver puntualmente incassato la vincita, subito la “girava”, 50.000 lire a cranio, a me e Mario”. 

Al termine della tua, comunque interessante parentesi in serie A, scompari dal giro del basket che conta. Eppure ricordo perfettamente che il tuo nome circolava con discreta frequenza anche nel giro del basket professionistico. Come spieghi questo fatto?
“Nell’estate del ’93 arrivano effettivamente alcune offerte da club di A2 e B1, ma io non le prendo nemmeno in considerazione perchè allora consideravo la pallacanestro alla stregua di un sport bellissimo da giocare insieme a tanta gente simpatica e un hobby divertente, ma non certamente qualcosa su cui costruire un solido progetto di vita. Per amore di verità aggiungo di essere sempre stato “troppo serio” e, tanto per fare un esempio, ricordo che anche nelle categorie giovanili mi capitava di saltare gli allenamenti se di mezzo dovevo preparare una interrogazione difficile o un compito in classe importante. Questo per dire che lo studio e il profitto scolastico sono sempre stati al centro dei miei pensieri. Anzi, di più, fare pallacanestro era assolutamente funzionale per studiare. Il basket mi permetteva di sfogarmi, di scaricare le tensioni fisiche e mentali e mi restituiva uno stato di equilibrio psico-fisico che ho sempre considerato determinante per mettermi sui libri. Quindi, dopo aver raccontato di questo “imprinting”, ecco che forse le mie scelte appaiono del tutto naturali e in linea con i miei pensieri. Anche se…”.

Anche se…?
“Anche se, guardando al mio passato cestistico, ho il piccolo rammarico di non aver voluto nemmeno provare a vedere cosa potesse esserci dietro l’angolo. Per usare una metafora da psicanalisi direi che mio “Super Io” razionale e lucido ha “ucciso” nettamente la mia parte fatta di sfacciataggine e improvvisazione. Però, alla fine, è andata più che bene così perchè grazie allo studio, alla laurea in economia e commercio e ad un solido curriculum lavorativo costruito in 15 anni in KPMG, oggi rivesto un ruolo di importante responsabilità in Elmec e professionalmente posso dirmi più che soddisfatto”.        

Torniamo alla pallacanestro giocata che, per te, dopo Pallacanestro Varese si declina sostanzialmente in due soli colori: il bianco e nero di Pallacanestro Gavirate.
“Esatto: a Gavirate, in un ambiente assolutamente fantastico per amicizia, complicità, condivisione di ideali e divertimento, trascorro praticamente tutta la mia carriera e, in ogni cosa, vivo i miei anni più belli ed esaltanti giocando tra serie C2 e C1 fino a toccare il cielo con la promozione in B2 conquistata nel campionato ’99-2000. A Gavirate do tutto quello che ho dentro, ricevendo in cambio molto, molto di più grazie, ribadisco, alla magia di un gruppo in cui per capirsi bastava solo uno sguardo. Buonissimi giocatori  come Dino Boselli, Antonetti, Orrigoni, Giussani, Bonza, Caneva, Del Torchio, Lauri mi aiutano a crescere sotto tutti i punti di vista e insieme diamo una chiara dimostrazione che i valori umani e la forza dello spogliatoio spesso, quasi sempre, superano quelli prodotti dalla semplice somma algebrica derivante da talento più qualità fisiche e tecniche. Noi in quegli anni, non lo nego, schieriamo anche squadre buone, ma sullo stesso livello delle nostre rivali. La verità è che rispetto agli avversari noi proponiamo qualcosa in più. Ed è quel “qualcosa”, ovvero la forza granitica di uno spogliatoio davvero unito tra tutti, giocatori, staff tecnico e dirigenti, che ci aiuta a mettere insieme tante stagioni vincenti. Un’alchimia perfetta che, lasciata la Pallacanestro Gavirate, non ho più trovato in altre piazze. Di fatto, dopo un paio di stagioni in C2, chiudo definitivamente con il basket giocato “in categoria” perchè gli impegni di lavoro si fanno sempre più gravosi e reggere il ritmo tra spostamenti quotidiani a Milano, riunioni organizzative che sovente si protraggono oltre l’orario d’ufficio e altre attività, diventa impossibile. Chiudo con un bilancio generale più che positivo ma, se posso dirlo, con un solo grande rimpianto”.

Quale, se si può dire?
“Credo di aver dato una grande delusione a Toto Bulgheroni quando respinsi con una certa fermezza la sua proposta di andare al CMB Rho, club che allora collaborava attivamente con Pallacanestro Varese sia a livello giovanile, sia a livello senior”.

Perchè tiri in ballo addirittura un termine come “delusione”?
“Perchè Toto mi ha molto aiutato quando al momento di scegliere l’università si mostrò disponibile a pagare le tasse d’iscrizione alla LIUCC. Così ho sempre pensato che avrei almeno dovuto ricambiare quell’atto di grande generosità di Bulgheroni che, non c’è bisogno che lo dica io, è un “Signore” con la “S” maiuscola”.

Ecco arrivati in fondo alla nostra piacevolissima chiacchierata e, come al solito, si va con le tue “nomination”.
“So come funziona il giochino ma, perdonami, non farò classifiche o nomi perchè, sia a livello giovanile, sia a livello senior sono legato a tutti i miei compagni e so già che citandone solo alcuni farei torto a molti altri”.

Allenatori?
“Senza dubbio Roberto Piva e Giulio Besio per i livelli giovanili e coach Enrico Piazza, personaggio stupendo, per quello che ha dato a me e tutti quanti a Gavirate”.

Avversari più tosti?
“Alessandro Abbio che a livello giovanili era immarcabile e Matteo Margarini che a livello senior mi teneva in apprensione su entrambi i lati del campo”.

Oggi c’è ancora pallacanestro nella tua vita?
“Certo, al netto di impegni familiari – mia moglie Laura e i miei figli Alessandro, classe 2011, e Riccardo, classe 2013 -, e coronavirus permettendo, sono sempre in pista in attesa di riprendere le partitelle del venerdì sera giocate con un folto gruppo di ex”.

Infine: hai un pensiero che è rimasto in sospeso?
“In tutta sincerità, a volte penso che se avessi avuto il carattere, certamente più tosto e sfrontato di mio padre o di mio fratello Davide, forse, dico forse, la serie A da buon protagonista l’avrei fatta anch’io. Ma quando chiudo gli occhi e rifletto sale a gale la mia fortissima parte raziocinante e una vocina mi dice; “Oh Jack, guarda che alla fine ti è andata bene anche così…”.    

Massimo Turconi

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