Inedito ma quanto mai cruciale turno infrasettimanale per la Openjobmetis Varese che, a quattro giornate dal termine della stagione, si trova a più quattro sull’ultimo posto in classifica, occupato dai cugini canturini con la possibilità praticamente di chiudere virtualmente il discorso salvezza già in questo mercoledì di campionato sul proprio parquet.
Il compito sarà reso difficilissimo dalla Umana Reyer Venezia, ospite dei biancorossi, che viene da un buon momento di forma e che darà grosso filo da torcere ad una Varese che vuole riscattare la sconfitta di Reggio Emilia di domenica. Ormai agli sgoccioli di questa stagione nefasta e molto logorante per tante ragioni, chi se non Massimo Ferraiuolo può tracciare al meglio un bilancio di questo primo anno del nuovo corso biancorosso, facendo qualche passo indietro nel tempo per guardare avanti.

Il palazzetto ora sembra pieno, anche se in realtà le sagome coprono parzialmente il vuoto reale che c’è. Lei si ricorda invece la prima volta che da giocatore ha messo piede su questo campo con il palazzo gremito?
“E’ stata un’emozione incredibile. Era il campionato 1986/1987, giocavamo contro il Banco Roma. Il palazzetto era strapieno e la sensazione quando sono entrato in campo, dopo circa 7/8 minuti di gioco, è stata quella di quasi incredulità. Non mi rendevo conto di essere lì in quel momento e di cosa stesse succedendo. Dopo qualche secondo però ho preso subito confidenza, è stato un bell’esordio alla prima di campionato, giocai abbastanza bene, segnando parecchi punti Fu il coronamento del mio sogno che fin da bambino avevo coltivato e che avrei voluto realizzare. Ricordo ancora il primo canestro da una posizione di mezzo angolo, un po’ insolita per me, ma fu tutto bellissimo”.

Quale compagno le è rimasto più impresso per il rapporto avuto con lui o per le qualità tecniche?
“Dico Meo Sacchetti. Arrivavo da esordiente assoluto, dopo due anni in prestito in Serie B alla Robur et Fides. Tornavo a casa mia e avere un compagno come lui, di un’esperienza pazzesca e che è diventato per me un punto di riferimento nel modo di allenarsi, di stare in campo, di preparare le partite mi ha aiutato tantissimo a capire subito cosa volesse dire essere un giocatore professionista”.

Quale allenatore invece le ha lasciato di più?
“Sono rimasto legato a tanti coach, prima come giocatore e ora come Team Manager. Senza togliere niente a nessuno, quando ero giocatore sicuramente un nome su tutti è quello di Joe Isaac, il primo che ha creduto in me avendomi avuto fin dalle giovanili. Da Team Manager, invece, penso a Charlie Recalcati perché univa la sua conoscenza infinita della pallacanestro al fatto di essere un signore, una persona di una correttezza incredibile e che soprattutto aveva una capacità innata di far sentire importante e al posto giusto ogni persona che lavorava con lui”.

Ha vissuto tante ere cestistiche diverse nella tua carriera. Come si sta evolvendo questo sport e dove si collocherebbe il Massimo Ferraiuolo giocatore oggi?
“Oggi stiamo parlando addirittura di un altro sport, per certi versi. Ai miei tempi, anche per salvarsi rispetto al paragone con il gioco di adesso, si dice che avessimo un bagaglio tecnico superiore. Non so se effettivamente fosse così, forse sì, però sicuramente oggi ci sono un atletismo ed una fisicità che prima non c’erano. L’intensità fa davvero la differenza rendendo il gioco magari un po’ più spettacolare, anche se devo dire che noi della DI Varese facevamo un gioco frizzante e brioso. Come giocherei io oggi non lo so, però sicuramente, rispetto ai miei tempi, quando per fare il play se non eri alto almeno 1.90cm facevi fatica a giocare, oggi ci sono tanti esempi di giocatori di taglia più piccola e noi ne abbiamo uno come Michele Ruzzier. Penso che anche oggi un piccolo spazio in qualche squadra lo potrei trovare”.

Tornando sull’attualità, tolta la sconfitta di Reggio Emilia, la squadra viene da un periodo molto positivo e il periodo difficile è stato superato grazie allo spirito di questo gruppo. E’ davvero uno dei migliori degli ultimi anni?
“Sì, è uno dei gruppi migliori. Mi faccio vanto di una cosa per quanto riguarda il nostro club e la nostra organizzazione, cioè che chiunque lavori in Pallacanestro Varese fa in modo che si creino le migliori condizioni per i ragazzi per potersi esprimere al meglio. Quest’anno la scelta di dare un’identità un po’ più italiana alla squadra ha aiutato. Ho sempre in mente l’esempio di Niccolò De Vico che per infortuni vari, situazioni legate al covid e cambi tattici ha avuto qualche problema, ma ogni giorno arriva in palestra con il sorriso e con la voglia di lavorare duro e mai l’ho visto con un’espressione di disappunto perché ha giocato poco o addirittura non è entrato in una partita. Questi, sembra una frase scontata, sono i giocatori che permettono ad una squadra di raggiungere risultati importanti e come lui di ragazzi così in questo gruppo ne abbiamo diversi. Tutto ciò aiuta il lavoro della squadra, anche nei momenti più difficili”.

In questa stagione con playoff e lotta salvezza racchiusi in quattro punti e con la quota salvezza che si è alzata di molto, quando secondo lei si deciderà il campionato?
“Il rischio è che si arrivi a giocarsi tutto, se non all’ultima, alla penultima giornata, sia per il discorso playoff che per quanto riguarda soprattutto la salvezza. Sarà una lotta lunga e serrata fino alla fine a quote che non sono tipiche della salvezza”.

Varese ha inaugurato un nuovo ciclo che vuole far espandere il brand societario in tutto il territorio, provinciale e non solo. Lei da uomo immagine e simbolo vivente di ciò che è la Pallacanestro Varese, quali valori cerca di trasmettere a questi ragazzi ogni giorno?
“Non è facile come lavoro. Cerco di far capire ai ragazzi che sono in un luogo particolare e non mi riferisco solo all’aspetto storico-sportivo e ai risultati raggiunti in passato, ma soprattutto ai tifosi, alla città, alla gente, a tutti coloro che riescono a sentirsi vicino alla squadra. E’ un grandissimo peccato che quest’anno il gruppo non possa capire cosa voglia dire giocare in un palazzo pieno e vivere quelle emozioni uniche che solo Masnago ti sa regalare. Penso di riuscire a trasmettere questo abbastanza spesso, anche perché i giocatori hanno buona predisposizione ad acquisire ciò e penso che ciò sia uno dei punti fondamentali per vivere al meglio l’esperienza in maglia Pallacanestro Varese”.

Alessandro Burin

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