E’ arrivato alla pallacanestro per caso. Si è fermato nel basket nel nome di un amore. Assoluto. Impareggiabile. Travolgente. 
Felice Paronelli, mentre sfoglia l’album che racchiude le istantanee della sua vita, con malcelato rimpianto si rivede bello, giovane, atletico e “ginnico” sul seggiolino della sua canoa. La canotta IGNIS in bella evidenza, i remi impugnati con fierezza e lo sguardo rivolto verso un futuro pieno di speranze, ambizioni e soddisfazioni in una delle discipline più belle, nobili e faticose del panorama sportivo: il canottaggio. Alla fine, per Felice, non è andata così. 

Alle fine, per lui e per noi del basket, è andata meglio così perché, mollato l’armo, ci siamo ritrovati in casa uno dei migliori arbitri di sempre nel panorama della pallacanestro italiana e, anche per questa ragione, un motivo d’orgoglio in più per la nostra provincia baskettara. 
“Se nasci a Gavirate – ricorda Paronelli, classe 1944, 77 anni portati con eleganza e spirito giovanile -, e vivi tutti i giorni fronte lago, quello specchio d’acqua finisce con l’esercitare una forza d’attrazione irresistibile. Quindi, in modo del tutto naturale mi avvicino al canottaggio anche perché quando da ragazzino, nei primi anni ’50, della pallacanestro si sapeva ancora poco. Sulla canoa vado abbastanza bene e presto entro nel Gruppo Sportivo Ignis, arcinota comunità di grandi atleti di varie discipline voluta e organizzata da quello straordinario personaggio che era il dottor Giovanni Borghi. Il “cumenda”, allo scopo di trasmettere il senso di “famiglia”, desiderava che tutti gli atleti della sua squadra partecipassero al pranzo comunitario che si consumava, ovviamente tutti insieme, il sabato presso la Casa dello Sportivo a Comerio. E’ in quei momenti di ritrovo che faccio la conoscenza con i ragazzi che praticano altri sport. Su tutti Sandro Mazzinghi, fantastico pugile a proposito del quale scrivo addirittura un’intervista-articolo per il giornalino scolastico. Ampliando le conoscenze mi avvicino al mondo del basket facendo amicizia con i cestisti dell’Ignis, in particolare Remo Maggetti e Renato Padovan. Ed è proprio grazie a Padovan che, nella leggendaria palestra dei pompieri, assisto alla mia prima partita di pallacanestro, Ignis contro Reyer Venezia e scatta subito l’emozione. In breve tempo divento un ospite fisso della FIAT 600 di Padovan che mi scarrozza sulle tribune della XXV Aprile e spesso anche in trasferta”.

Scusa la domanda: e il canottaggio dov’è finito?
“Nella canoa nel frattempo passo dal ruolo di canottiere a quello di timoniere, ma tutto finisce con una cocente delusione perché, il nostro “Due con”, in cui fra l’altro c’è Bruno Duranti che in seguito diventerà pure lui un famoso arbitro, si presenta ai Campionati Italiani Assoluti da favorito. Purtroppo arriviamo all’appuntamento scarichi e senza energia e, ingloriosamente, siamo eliminati in prima batteria. Così, complici anche gli impegni di lavoro decido di mollare la canoa a livello agonistico per seguire la pallacanestro anche se, devo essere sincero, non so bene con quale ruolo. Ad indirizzarmi nella scelta interviene Pier Carlo Monticelli, notissimo dirigente di basket nonché mio collega di banca. Monticelli, vedendomi molto appassionato ma indeciso sul da farsi, mi spinge a frequentare il corso arbitri spiegandomi che: ‘Arbitrare è comunque un modo bello e interessante per restare nel mondo della pallacanestro'”.

Detto, fatto: a quando data il primo corso da “fischietto”?
“A 21 anni frequento il corso diretto da Aldo Albanesi, giustamente e meritatamente è considerato il “Maestro” di noi tutti. Pochi giorni dopo aver superato l’esame per diventare arbitro ricevo la designazione per la mia prima partita ufficiale: campionato di Promozione, Saronno contro Castellanza, domenica mattina alle 11 su un campo ovviamente all’aperto. 
Nel 1968 sono promosso in serie D e faccio l’esordio in categoria in coppia con Santini arbitrando Lama Bolzano vs Celana Bergamo. Nel 1971 arriva la promozione in serie C e l’esordio, in coppia col compianto Caslotti, è per la partita Rimini contro Pesaro. Nel 1971 salgo un altro gradino con la promozione in serie B e l’esordio è con Albanesi per Ausosiemens Settimo-IVLAS Vigevano. Infine, davvero sognata, nel 1974 arriva la promozione in serie A con Aldo Albanesi che “battezza” il mio esordio datato 20 ottobre, per IBP Roma contro Canon Venezia”.

Dopo quel pomeriggio romano ne è passata d’acqua sotto i ponti…
“Fiumi e fiumi, con numeri che – sorride Felice -, a volte mi sembrano inverosimili: 446 partite in serie A con, purtroppo, una sola finale scudetto, quella giocata nel 1992 tra Scavolini Pesaro e Benetton Treviso. Una sola finalissima playoff perché, a quei tempi, esistevano vincoli legati alla regionalità che non permettevano la designazione di Arbitri Lombardi in presenza di squadre finaliste lombarde.  Una Finale Scudetto Campionato di serie A Femminile nel 1981 tra Zolu Vicenza e Pagnossin Treviso in coppia con Tallone. 123 incontri Internazionali tra Coppa Campioni con esordio nel 1984 a Tirana per Partizan Tirana-Vevey, Coppa delle Coppe, Coppa Korac e, a livello femminile, in Coppa Ronchetti. 
500 incontri circa nei campionati  Zonali, Regionali, Interregionali e Nazionali; 2 Campionati Mondiali Juniores a Bormio nel 1987 e Edmonton, in Canada nel 1981; 2 Campionati Mondiali Militari ad Algeri nel 1982; a Pechino nel 1992; 4 Campionati Europei Juniores e Cadetti; 1 Coppa delle Nazioni; 1 campionato Panafricano a Luanda, Angola, nel dicembre 1989; 1Gioche del Mediterraneo nel 1989;  il 1° Open d’Italia giocato a Varese nel settembre 1984 con i New Jersey Nets e Ciao Crem Varese in coppia con l’arbitro NBA Joe Vanack e tante, tante altre manifestazioni”.

Con quasi 500 partite arbitrate in serie A, chissà quante ne avrai da raccontare…
“Arrivati a questo punto serve un doveroso preambolo: rispetto ai miei tempi l’atmosfera che si respira adesso sui parquet della serie A è quella di un tranquillo parco giochi per bambini. Oggigiorno ai miei colleghi tocca subire cori denigratori, fischi, insulti, qualche sporadico lancio di palline di carta, monetine e cose del genere. Sia chiaro, sono tutte situazioni comunque sgradevoli e da condannare, ma non hanno niente a che vedere col clima, spesso decisamente minaccioso, che aleggiava negli ani ’70 e ’80 in numerosi palazzi dello sport. Allora i tentativi di aggressione fisica, l’assedio dello spogliatoio degli arbitri, le fughe dei direttori di gara scortati dalle auto della polizia o addirittura all’interno dei blindati della polizia facevano parte, purtroppo, dei fatti di cronaca quasi ogni domenica. Così con queste premesse, posso dire di aver passato anch’io i miei brutti quarti d’ora a cominciare da una gara di serie C giocata nel 1972 a Torino tra Auxilium e Carrara e finita nel disordine generale a causa di incidenti avvenuti durante la partita. Nel 1974 a Udine per il match di serie A tra Snaidero e Sapori Siena, vinta da quest’ultima e diretta in coppia con Albanesi subisco il primo assedio fuori dagli spogliatoi mentre, in tutta tranquillità, stavamo andando a ritirare la macchina nel parcheggio. Assalto peraltro organizzato con un “trappolone” escogitato e diretto da un noto dirigente udinese di quei tempi. Nel marzo del 1975, sempre in tandem con l’Aldino Albanesi, subiamo un altro assedio. Questa volta per la gara Trieste-IBP Roma. Altri momenti da brividi mi capitano nel 1979 nella gara di serie A2 tra Novara e Mestre, vinta dai veneti. A fine gara subisco l’aggressione di Tanelli padre e figlio, rispettivamente presidente e allenatore del club novarese. Nel 1980 al termine della gara, già in campo neutro, tra Forlì e Scavolini, vinta dai forlivesi, i tifosi pesaresi fanno scattare la caccia all’uomo. O meglio all’arbitro. Il mio collega Casamassima riesce a barricarsi in spogliatoio, io invece incespico, perdo tempo prezioso e mentre ormai sento sul collo il fiato degli inferociti fans della Scavolini ecco che, come nei migliori film western, si sente la tromba della carica. In mio provvidenziale soccorso arrivano infatti un paio di giocatori- Rudy Hackett, papà del play del CSKA, e Enrico Franceschini che mi salvano iniziando a menare botte a chiunque si trovi sulla loro strada, mentre la rissa finisce con alcuni tifosi di Pesaro conciati veramente male. L’ultimo assedio di rilievo, ancora in duo con Casamassima, mi capita nel 1983 dopo la partita tra Rieti e Fabriano. Vince Fabriano che così condanna alla retrocessione il team reatino. I tifosi laziali non la prendono bene e ci assediano in spogliatoio per oltre due ore”.

Come vivevi questi momenti?
“Stavo male come un cane perchè, è chiaro – argomenta Paronelli -, al di là della pessima educazione sportiva dei tifosi, è evidente che se i sostenitori di una squadra arrivavano al punto di minacciare violenza fisica, qualcosa in campo doveva essere pur successo. Così, nei giorni successivi mi maceravo leggendo ogni quotidiano alla ricerca delle note critiche sui miei/nostri errori. Per fortuna in questo senso, ovvero sulla strada di un costante miglioramento, è intervenuta la tecnologia. A partire dalle videocassette registrate delle partite da noi dirette. Supporti preziosi che nei giorni successivi, studiati analiticamente, ci permettevano di focalizzare errori, punti deboli e fischi sbagliati”.

Tu, però, me lo ricordo bene, eri un arbitro dal tecnico “facile”.
“E’ vero, specialmente nei primi anni di serie A mi saltava spesso la pallina nel fischietto e allora volavano tecnici a tutto spiano. Poi, però, col tempo, l’esperienza e la maturità sono “guarito” e tutto è diventato più semplice grazie anche al clima di fattiva collaborazione, in alcuni casi anche di sincera amicizia, che nel corso degli anni si è creato tra giocatori e arbitri. In questo senso ricordo per esempio che in campo tra me e Chuck Jura, strepitoso americano della Xerox Milano, erano spesso scintille e incomprensioni, ma alla fine della partita andavamo a mangiare insieme e, molto spesso, Jura mi chiedeva di dargli un passaggio fino a casa perchè Chuck abitava a Tradate”.  

Hai parlato di scintille: con chi ancora tra giocatori e allenatori?
“In realtà con i giocatori si andava via in modo abbastanza sbrigativo anche perchè il protocollo dell’epoca chiedeva di evitare le discussioni sul nascere. Però, in tutta sincerità, quando arbitravamo Mike Sylvester cercavamo di stare attenti perchè, come noto a tutti, Mike aveva una certa predisposizione a tirare cazzotti. Con gli allenatori invece era un po’ più difficile e, per esempio, coach  Tonino Zorzi non era facile da gestire. Il “Paron”, uomo di grande personalità, cercava in ogni modo e con ogni mezzo di condizionare il metro arbitrale. Durante la partita Zorzi parlava in continuazion. A volte a bassa voce. Altre con mezze frasi sibilate quando passavi vicino alla sua panchina. Altre ancora esplodendo in sceneggiate con le quali “voleva” il fallo tecnico per cambiare il senso delle gare o semplicemente per svegliare i suoi giocatori o il pubblico. Un grande attore, Tonino. Poi, ricordo un’aspra polemica sorta con coach Valerio Bianchini quando allenava a Roma. Dopo aver perso male contro la Virtus Bologna-Roma, Valerio aveva utilizzato i giornali per accusarmi di ogni nefandezza e scatenare le sue frequenti “guerre sante”. Purtroppo, nella fattispecie la Commissione Giudicante non prese nessun provvedimento disciplinare nei confronti di Bianchini facendomi fare anche brutta figura. Cosa che, oggettivamente, non meritavo”.

Paronelli &…? Con chi la coppia perfetta?
“Ho avuto la fortuna di iniziare con Aldo Albanesi che, come ho già detto, è stato un grandissimo insegnante. Anzi, per meglio dire: un vero “Professore” della tecnica arbitrale a 360°. Aldo e Stefanutti hanno rappresentato i miei modelli da seguire. Con Pietro Tallone e Solenghi invece ho diretto poche partite, così a conti fatti la mia coppia è stata Paronelli&Casamassima, ottimo arbitro di Cantù. Invece insieme a Zeppilli nel 1992 ho diretto la mia unica finale scudetto tra Treviso e Pesaro”.

Esiste la solitudine dell’arbitro, ovvero l’essere soli quando devi prendere decisioni importanti?
“Esiste, eccome. Soprattutto se col tuo compagno di coppia non c’è grande feeling o abitudine. E’ vero che con alcuni colleghi non ci si “usmava” troppo e c’era grande rivalità, ma in generale tra tutti noi esisteva grande solidarietà, coesione e nessuno veniva lasciato solo. Un’unione d’intenti che rinforzavamo trovandoci in luoghi mitici discutendo dei nostri problemi: Trattoria Toscana a Milano; Birreria Forst a Trieste,  Ristorante Canaletto a Mestre e così via. In verità, e mi fa tristezza dirlo, penso ci fosse più amicizia ai nostri tempi. Adesso, vedo coppie arbitrali un po’ “scollegate” fra loro. Segno che non si frequentano e, aspetto ancora più  importante, non vedono la pallacanestro con lo stesso punto di vista”. 

Come ti preparavi per le partite?
“Oltre alle tabelle da seguire per la preparazione atletica, facevo il miglior allenamento possibile: durante la settimana, insieme al mio grande amico Franco Sala, arbitravo le amichevoli organizzate da Pallacanestro Varese. Un vero, e durissimo banco di prova perchè giocatori e allenatori si lasciavano andare ad atteggiamenti comprensibilmente più “liberi” e gestire tutto questo col sorriso non era esattamente semplice”. 

Quando hai appeso il fischietto al chiodo?
“La data, esattamente come quella dell’esordio è incancellabile: Napoli, 10 maggio 1992, gara tra Depi Napoli e Kleenex Pistoia, partita fondamentale per il passaggio in A1, vinta dai pistoiesi”.

E dopo aver detto “stop”?
“Ho ricoperto molti ruoli in ambito arbitrale: commissario valutatore degli arbitri di serie A; vice designatore; commissario internazionale FIBA; commissario in ULEB; designatore per la serie B e, infine, per 7 anni ho fatto il responsabile delle designazioni per la serie A in un periodo complicatissimo attraversando, senza mai esserne sfiorato, le ben note vicende di “Baskettopoli”. Quello del designatore è stato un lavoro tutt’altro che facile nonchè un compito davvero stressante per il quale ho avuto comunque diverse soddisfazioni. La più importante? Aver creduto e lanciato La Monica che nel giro di pochi anni è diventato il miglior arbitro del mondo FIBA. Quindi esclusa NBA, ovviamente”.      

Favorevole al professionismo in campo arbitrale?
“Favorevolissimo, al 1000% anche perchè, di fatto, i nostri arbitri sono già professionisti “in pectore”. Però, a quello vero di professionismo, quello sancito nero su bianco da leggi e contratti temo non ci si arriverà mai perchè sono troppi i personaggi che dovrebbero rinunciare alla loro parte di potere. La verità è che arrivati ad un certo punto del loro percorso, quindi alle soglie dell’eventuale scelta professionistica, gli arbitri dovrebbero uscire dalla sfera d’influenza della Federazione. Punto. Ma questo è un argomento spinoso che, per fortuna, non mi riguarda più”.  

Aneddoti particolari?
“Ne ho due che vorrei citare. Campionati Panafricani a Luanda, Angola, nazione straziata dalla guerra civile. Durante il giorno le forze militari angolane conquistavano il potere, ma la notte i guerriglieri se lo riprendevano. Così, tra colpi di fucile e mitragliatore, andavamo ad arbitrare a bordo di jeep corazzate e scortate dai militari. Il secondo ricordo è decisamente tragico. Domenica 20 febbraio 1977, palazzetto di Forlì, gara di serie A tra Jolly  Colombani Forlì-Chinamartini Torino. Nel pre-partita, con il palazzo dello sport ancora chiuso, in compagnia di Casamassima e altri dirigenti di Forlì e Torino si chiacchiera amabilmente con Luciano Vendemini, detto il “Duca di Edinburgo”, ottimo giocatore, ragazzo splendido, simpatico, educatissimo. Improvvisamente, vediamo Luciano, un pezzo d’uomo di 212 centimetri, stramazzare a terra. Nel giro di pochi minuti arrivano i soccorsi, ma purtroppo Vendemini muore a causa di una gravissima malformazione cardiaca. Eppure, nonostante lo schock, lo spavento e il clima terribile siamo costretti tutti quanti a disputare la gara. Ti lascio immaginare con quale stato d’animo”. 

Hai avviato anche i tuoi figli verso il mondo arbitrale.
“Mio figlio Francesco è arrivato fino alla serie A2, poi nel momento di abbracciare la scelta del professionismo, per i motivi a cui facevo riferimento prima, ha giustamente preferito mettere in primo piano la sua laurea in Chimica Farmaceutica e da qualche anno si è trasferito in Inghilterra dove svolge ruoli dirigenziali per una grande azienda. Mia figlia Manuela invece è refertista nei campionati giovanili e nelle minors di Varese e provincia. Il tutto per la “gioia” di mia moglie Rina, la quale “poveretta” ha sentito parlare solo di pallacanestro, giocatori, allenatori, dirigenti e palestre”.

Giocatori? Quali hai ammirato di più?
“La lista, davvero lunghissima, è parziale perchè, come ho spiegato, per i famigerati criteri di territorialità-regionalità ho arbitrato pochissime volte le squadre lombarde. In testa al gruppo metto Brunamonti, giocatore correttissimo e grande signore del parquet. Però, mi piace ricordare Sbarra, Wright, Kea, Gilardi, Caglieris, Zanatta, Aldo Ossola, Magnifico, Gracis, Meo Sacchetti, “Zio” Willie Sojourner, Jura. Ma, me ne scuso, chissà quanti ne ho tralasciati”.

Gli ultimi pensieri per chi sono?
“Il primo pensiero/ringraziamento è per Franco Sala, grande amico e buonissimo arbitro che, solo per problemi “burocratici” – ai tempi in serie A erano presenti ben 9 arbitri lombardi -, non ha avuto in premio la possibilità di arbitrare la serie A. Franco invece avrebbe meritato la massima serie più di tanti altri sicuramente meno bravi e appassionati di lui. Sala è stato un arbitro eccellente, attento, aggiornato e sempre “al pezzo” semplicemente perchè viveva per arbitrare. Infine, un pensiero speciale va a tutti coloro dai quali ho avuto collaborazione e mi hanno aiutato nel corso della mia carriera. Penso in particolarea Toto Bulgheroni e ai vari staff tecnici che si sono avvicendati in Pallacanestro Varese. Poi, un grazie sincero agli indimenticabili Augusto Ossola e Giancarlo Gualco. Infine, rivolgo un enorme, ideale abbraccio al carissimo Sandro Galleani che, in occasione dei miei infortuni sul parquet, mi ha curato come fossi stato uno dei suoi giocatori. Se ho potuto arbitrare così tanto e così a lungo è stato anche merito suo e delle sue mani magiche”.

Massimo Turconi

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