Raccontare le vicende cestistiche di Luisella “Lella” Falciani significa intingere la penna nella storia del basket femminile di Busto Arsizio e della provincia varesina. Significa raccontare un’epoca, nemmeno lontanissima nel tempo, in cui la città di Busto Arsizio con una squadra in A1 femminile e una, spesso da “quartieri alti” in B1 maschile, rappresentava davvero il secondo polo di pallacanestro di “Varese Land of Basket”.
Significa raccontare la storia dell’unica giocatrice che, nata e cresciuta a Busto Arsizio, è stata capace in tempi moderni di arrivare a giocare in serie A con un ruolo importante e per diverse stagioni. 
Significa, infine, rendere omaggio ad una persona che, veramente innamorata della pallacanestro, continua a seguire la palla a spicchi e, in qualche modo a viverla e a “giocarla” attraverso le gesta di sua figlia Francesca, che di cognome fa Cassani e da sei stagioni rappresenta la giocatrice-franchigia della Pallacanestro Femminile Varese.

Una storia, quella di Lella, classe 1963, che inizia dal minibasket: “Dopo aver praticato nuoto e ginnastica artistica – ricorda Falciani -, i miei genitori, siamo a circa metà anni ’70, mi iscrivono ai corsi di minibasket organizzati dalla Cestistica Bustese. La pallacanestro fin dai primi approcci entra nella mia vita come un treno lanciato a tutta velocità e certamente è lo sport più adatto per esprimere la grande energia che ho dentro”.

Che ricordi hai delle categorie giovanili?
“Il primo ricordo è legato a Sergio Bazzani, figura storica della pallacanestro bustocca che, di fatto, mi piazza il pallone fra le mani e mi insegna i primi fondamentali del gioco. Però, in realtà, le categorie giovanili affrontate con diversi allenatori, in particolare coach Giandomenico Crespi, saranno solo un elemento di rapidissimo passaggio nella mia carriera. In parte perché il nostro gruppo non è granchè fornito, molto perché a 14 anni il general manager Giuseppe Albanese, vedendomi fisicamente già strutturata e mentalmente pronta, intravede per me un salto precoce in prima squadra. Albanese infatti invita e convince coach Crespi a darmi fiducia e spazio, così nel corso di un combattuto “Trofeo Hotel Mariani”, famoso torneo dell’epoca, mi comporto molto bene dimostrando di poter “reggere” la competizione anche contro giocatrici più esperte e mature. Nel mese di settembre la società mi convoca per iniziare, da aggregata, la preparazione per il campionato di serie B, ma dopo poche settimane coach Guido Foglio Para lascia l’incarico e insieme a lui se ne vanno anche alcune delle giocatrici più esperte e importanti. A quel punto il club per terminare degnamente la stagione non può fare altro che affidarsi alle poche giocatrici rimaste e dare spazio a noi ragazzine. La stagione dal punto di vista dei risultati si conclude con una retrocessione annunciata in serie C, ma per diverse di noi quell’annata, con tantissimi minuti a disposizione, la possibilità di prendersi responsabilità e soprattutto di giocare senza alcuna pressione addosso risulterà determinante. Per me si tratta di una grande esperienza tecnica e agonistica che, sempre più, mi proietta verso il basket senior. L’anno successivo, sempre in sempre C, alla guida c’è coach Pizzoli, è quello di un’ulteriore maturazione. Tutto è pronto per la stagione 1979-’80 che coincide con la fusione tra i due club cittadini: Cestistica Bustese e Basket Antoniano, società da poco retrocessa dalla A alla B. Per effetto della fusione ci ritroviamo in serie B, tra l’altro con una squadra più che discreta che comprende le ragazze rimaste dalla A e il nostro gruppo di giovani. Il “mix” funziona alla grande perché tra noi ci sono tutti gli elementi necessari e indispensabili per fare bene: buone qualità tecniche e fisiche, forti  motivazioni e grande ambizione da parte di tutte le ragazze. Guidati in campo da un elemento super come Cesati, e in panchina da coach Giancarlo Avellano,  vinciamo la serie B abbastanza facilmente e i successivi due campionati di A2 sono quelli in cui, oltre a fare esperienza, prendiamo le misure alla categoria superiore per preparare lo sbarco, peraltro non previsto, in serie A1”.

Perché non previsto?
“Perché la stagione 1982-1983 non parte proprio benissimo. La squadra è buona, ma per il decollo definitivo deve attendere l’arrivo di coach Andrea Petipierre, chiamato dai dirigenti al posto di coach Ermanno Colombo. Poco alla volta cambiamo passo e gara dopo gara, pur non essendo tra le squadre favorite, sentiamo crescere consapevolezza e fiducia nei nostri mezzi. Così, quando inizia il periodo dei playoff la nostra squadra è la classica mina vagante, quella che un po’ tutti vorrebbero evitare. E fanno bene perché un turno dopo l’altro, eliminando tutte le avversarie arriviamo alla finalissima contro Viterbo, una serie playoff da giocare avendo contro la svantaggio del campo. A sorpresa vinciamo gara-1 a Viterbo e in gara-2, al PalAriosto a Busto il nostro pubblico è pronto per grande festa. Invece nervosismo, tensione e stanchezza ci fregano, giochiamo male e Viterbo ci restituisce lo sgarbo. In gara-3, ancora a Viterbo, emergono in modo netto e definitivo il valore tecnico, ma soprattutto le qualità morali e la compattezza del nostro gruppo. Sudando le proverbiali sette camicie, in un “ambientino” piuttosto ostile, vinciamo disputando una bellissima partita e festeggiamo la promozione in A1 con una notte intera davvero strana perché, sul pullman che ci riporta a casa, tensione emotiva e profonda stanchezza ci tolgono persino la voglia di urlare e cantare di gioia. Notte sommessa, ma comunque fantastica perché, in qualche occasione, la felicità più sentita e vissuta è quella espressa con poche parole e molti sguardi di intesa e complicità. Una notte, nemmeno il caso di sottolinearlo, irripetibile, inimmaginabile cui, qualche giorno dopo farà seguito una gioia collettiva e una festa “.  

E per te arriva, finalmente, l’esordio nella massima serie.
“Le emozioni provate in quell’annata – racconta Lella -, sto parlando del 1983-1984, sono persino difficile da raccogliere e descrivere. Tutto mi sembra, ed in effetti lo è, bello, stupendo, luccicante. E’ favoloso giocare in palazzi dello sport di grande effetto come il PalaAzzarita di Bologna, il PalaMaggiò di Caserta o arene famose per il basket femminile come il palazzetto di Vicenza, di Schio e della Comense. E, ancora, è davvero stimolante misurarsi contro le più forti giocatrici del mondo visto che, è giusto sottolinearlo, in quegli anni le migliori giocatrici straniere approdavano in Italia. Il primo anno, continuando l’onda lunga e vincente della A2 ci salviamo facilmente e anche nelle stagioni a seguire, giocate in bilico tra playoff e poule-salvezza, riusciamo sempre a mantenere la categoria”.

Tu, come te la cavi al livello “top”?
“Complessivamente non male anche perché, dopo tantissimo  lavoro in palestra, giunge a compimento la mia trasformazione tecnica e tattica e in A1 gioco principalmente da ala grande oppure in particolari situazioni anche qualche giro da ala piccola. Tuttavia, devo aggiungere che i primi due campionati di A1 sono tormentati da problemi fisici figli di seri infortuni al ginocchio. Poi, dopo un lungo e faticoso periodo di riabilitazione, riesco per fortuna a mettere insieme due stagioni apprezzabili e senza pause”.

In quegli anni di A1 sei, di fatto, l’unica giocatrice di Busto che gioca “in casa”.
“Quella presenza da un lato è motivo d’orgoglio, mentre dall’altro mi fa ripensare a due mie compagne “storiche” delle giovanili – Daniela Denna e Monica Nesi -, che dopo la promozione in A1, per loro scelta, si chiamano fuori. Ed è un peccato perché a mio parere entrambe avrebbero potuto tranquillamente giocare al piano di sopra e, insieme, avremmo formato un bel terzetto di bustocche in serie A1. Più avanti ci sono state altre concittadine, penso ad Azzolini, Anna Colombo, Gazzinelli, ma mi riferisco a ragazze giovanissime cui gli allenatori regalavano poche opportunità di gioco”.  

La Nazionale, invece? Ci hai mai pensato?
“In verità no, sia perché non giocavo in club di nicchia, sia perché nei primi due anni un po’ travagliati non ho messo via prestazioni degne in termini di continuità. Però, non è mai stato  un cruccio anche perché mi bastava giocare da professionista – mai lo avrei immaginato -, nella mia Busto davanti al pubblico, caldissimo e partecipe che affollava il piccolo PalaAriosto già due ore prima del salto a due. Il palazzetto, per le avversarie, rappresentava un vero inferno e a Busto, per vincere, dovevano essere davvero di un altro pianeta”.  

Serie A1 significa anche relazionarsi con le giocatrici straniere.
“Io ne ho conosciute solo 2: Sheila Foster e Katy Andrykowsky. Sheila è una buona giocatrice, ma di gestione un po’ complicata per il suo carattere bizzarro, mentre Katy è semplicemente eccezionale. Sotto tutti i punti di vista. Katy, centro filiforme di 194 cm, dotata di un bagaglio tecnico infinito, grande senso della posizione e del rimbalzo, è il nostro punto di riferimento costante. Noi la cerchiamo in continuità e lei, giocatrice generosa, ripaga le nostre attenzioni creando spazi e soluzioni per tutta la squadra. Poi, fuori dal campo, Katy è una ragazza allegra, di grande compagnia, perfettamente integrata nel gruppo e amiche di tutte. Non a caso, siamo ancora in contatto e spesso ci si sente o ci si scrive”. 

Altre compagne da ricordare?
“Tutte, direi perché ho un carattere accogliente, disponibile e sempre aperto ai rapporti umani. Ho un pensiero speciale per Cesati, la nostra grandissima “Capitana” e grande compagna di squadra che, grazie alla sua esperienza, ci ha aperto le porte del basket ad alto livello. E ricordo davvero con affetto e gioia tantissime mie compagne le quali, sottolineo, sono tuttora le mie amiche per la vita: Caon, Denna, Benaglia, Bitu, Re, Todeschini, talento eccezionale che praticamente ho visto nascere cestisticamente, Lodini, Gamba, Bonora, Elekes. Poi, ho un ricordo per Panni a cui, quasi in un passaggio di testimone, ho consegnato la mia maglia in occasione delle Finali di Coppa Italia a Capri. Kermesse alla quale non partecipo per i postumi di un infortunio. Ho citato queste, ma chissà quante altre ne sto dimenticando. Comunque, tutte ragazze simpatiche e donne in possesso di grandi qualità”.

Esaurita l’avventura in serie A che succede?
“Succede che, sempre più pressata da impegni lavorativi e famigliari, scendo di categoria e continuo a giocare ancora per qualche anno, ma solo vicino a casa, tra serie A2 e B a Varese e Gavirate, ritrovando ex-compagne di squadra, una per tutte Daniela Denna. Sono anni giocati ad un buonissimo livello competitivo, ma divertenti e soprattutto senza avere fra i piedi gli atteggiamenti a volte un po’ stressanti e sopra le righe del professionismo”.  

Allenatori da ricordare?
“Essendo una grande lavoratrice in palestra sono sempre andata d’accordo con tutti i miei coach, ma è chiaro che per Gian Carlo Avellano, il primo mi ha buttato nella mischia, e Andrea Petitpierre, che mi ha insegnato la mentalità della giocatrice professionista, ho ricordi speciali. Diciamo che Avellano è stato bravissimo nel preparare la “torta”, mentre Petitpierre è stato eccellente nel mettervi la classica ciliegina”.

Infine, c’è Francesca, la tua figliola.
“Francesca, dopo essere cresciuta cesticamente nella Pro Patria Busto Arsizio a 15 anni si è trasferita al GEAS Sesto San Giovanni, club in cui a livello giovanile ha vinto scudetti in diverse categorie e ha debuttato in A2 a livello senior. Poi, ha scelto di lasciare Sesto e da 6 stagioni ha, come dire, trovato “casa e famiglia” a Varese, club in cui si trova molto bene e del quale, non a caso, è anche Capitana. Ho vissuto insieme a lei la fantastica annata della promozione in A2 e anche quella successiva, davvero dolorosa perché coincisa col suo grave infortunio al legamento crociato e la retrocessione. Francesca è innamorata del gioco e, come me, è agonista nata, animata da una grande carica e voglia di vincere. Forse, probabilmente, ad alto livello, serie A1 intendo, non è stata premiata come avrebbe meritato, ma quel tempo ormai è passato e quella che conta è vederla serena e sempre motivata nel raggiungere risultati, migliorare se stessa, aiutare le compagne e stare bene in spogliatoio. In fondo, l’essere giocatrici o giocatori è solo questo. In fondo – conclude Lella -, questa è la lezione, silenziosa, che ho cercato di trasmetterle. Spero di esserci riuscita”.

Massimo Turconi

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