Mentre sul giradischi sfumano calde e commoventi le ultime note di “Father & Son”, meraviglioso standard di Cat Stevens, è automatico immaginare un bel dialogo fatto di basket e vita tra Carlo Colombo, notissimo e importante allenatore varesino, e suo figlio Andrea, ex-playmaker-guardia protagonista, col magico gruppo dei nati nel 1982, di una della più entusiasmanti vicende cestistiche che ci sia concesso di raccontare. 
Immagino che Carlo, uomo saggio e sempre misurato, abbia detto ad Andrea in un momento particolare della sua vita: “Non è il momento di cambiare, Andrea. Rilassati e prendila con calma. La tua sola colpa è di essere giovane, ma hai tanto tempo per sistemare le cose”

E Andrea, “take it easy”, facendo sua la semplice lezione di suo padre, scavalla alla grande un breve e peraltro normale periodo di incertezza giovanile, ripresentandosi in gran forma sul rettilineo della vita pronto a tagliare tanti traguardi – sportivi, scolastici, professionali, famigliari – a braccia alzate e in maniera brillantissima.  
“I miei genitori – dice Andrea -, ci sono sempre stati nel modo “giusto”: buoni consigli, nessuna forzatura, infinite indicazioni sulle possibili strade da percorrere e, sempre, tanta, tanta fiducia. E Carlo, per essendo un allenatore apprezzato e ascoltato, non si è mai intromesso nella mia vita cestistica dimostrando sempre approvazione per le mie scelte oltre a grande rispetto e stima per tutti i suoi colleghi che hanno lavorato con noi”.

Noi significa il gruppo ’82, una “generazione di fenomeni ”, parafrasando la canzone.
“Fenomeni magari è un tantino esagerato – replica con un sorriso timido Andrea -. Penso ci starebbe meglio un termine più umile. Tipo “buona annata”. Anche se, bisogna ammetterlo, l’82 ha prodotto giocatori che hanno fatto ottima figura in tutte le categorie. Dalla serie A con Marchino Passera, alla A2 con Simone Gatti alla DNB, C1, C2 e via di questo passo. Insomma: un bell’andare, soprattutto se riferito e paragonato a tempi recenti. E non solo a Varese”.

Facciamo un “bel rewind” e partiamo dall’inizio: quando, come e perché il basket?
“Quando: a 6 anni con la prima leva di minibasket. Come: insieme a Marchino Passera che, praticamente, è come se fosse mio fratello gemello. Perché: perché con la mia famiglia e quella di Passera intorno, lo sbocco non poteva essere che la pallacanestro anche se, ripeto, i miei si sono sempre tenuti a distanza. Al minibasket, anno dopo anno, grazie ai continui inserimenti si forma il “mitico” gruppo 1982 che, lo dicono i numeri, lo confermano i fatti, a livello giovanile è stato uno dei più produttivi e vincenti nella storia della pallacanestro varesina e, in assoluto, in tutta la storia della pallacanestro italiana. 
Non so quante altre squadre in Italia abbiano vinto titoli Propaganda, Ragazzi e Allievi, Trofei Garbosi, e poi si siano qualificati per le finali nazionali Cadetti e Junior. Non ho mai fatto una ricerca di questo tipo ma, stando anche ai racconti di mio padre che qualcosa ne sa e se ne ricorda, non penso ve ne siano state molte di formazioni come la nostra”.

Un gruppo che nelle finali nazionali di Bormio, cestisticamente parlando, è salito sul “tetto del mondo”. Che ricordi hai di quel momento fantastico?
“La tentazione di circoscrivere il momento solo alla finalissima vinta contro Bologna è assolutamente da evitare e – commenta Andrea – sarebbe ingiusto farlo. Bormio ha rappresentato l’apice di un cammino durato anni e riprendendo la tua frase aggiungo che, prima di raggiungere la cime, abbiamo piazzato importanti “campi base” che ci hanno dato forza, convinzione, consapevolezza di noi stessi, motivazioni e stimoli per restare sempre uniti. Tuttavia, al di là di queste considerazioni, mi piace soprattutto ricordare che quel gruppo incarnava alla perfezione il già celebrato “spirito Robur”. Uno spirito che si recepiva nel piacere di stare insieme anche fuori dal campo, nelle divertenti ore passate lontano dalla palestra, nella spensieratezza che accompagnava ogni nostro passo. Nessuno di noi, parlando di pallacanestro, lanciava troppo in avanti lo sguardo. Nessuno pensava ad una possibile carriera nel basket. Nessuno scendeva sul parquet con la testa “pesante”. Giustamente contava solo il “qui e ora”: ci divertiamo a fare pallacanestro, nel vedere i nostri miglioramenti, stiamo bene in gruppo, vinciamo e, di conseguenza, in una logica concatenazione, ci divertiamo ancora di più. Un circolo virtuoso che, senza che ne accorgessimo, ci ha spinto “a rullo” fino agli Juniores. Certo, alcuni momenti di delusione ci sono stati, ma sono volati via in un battito di ciglia perché, davvero, avevamo dentro di noi l’epica dell’amicizia, dell’avventura, dell’irrefrenabile passione per quello che facevamo e, più di tutto, il senso dell’onore e del rispetto: per il gioco del basket e per i colori della Robur. Concetti forse difficili da spiegare e rendere a parole, che però rappresentavano, inconsciamente, il nostro quotidiano. Vivevamo di quelle cose lì e, con grandissima soddisfazione, devo dire che ci bastavano”.

Delusioni: quali?
“Beh, credo che la sberla presa alle finali nazionali juniores del 2000 rappresenti un “cinque dita” ancora visibile sui nostri volti. In quell’edizione delle finali il “ranking” nazionale ci posiziona #1 quindi andiamo da favoriti per spaccare il mondo invece siamo bolliti fisicamente, “lessi” nella testa e gli avversari ci fanno fuori già al primo giro. Così torniamo a casa sconfitti e quasi increduli”.  

Quando chiudi il volume delle giovanili, dove metti il segnalibro?
“Lo lascio, in bella evidenza, al primo anno Cadetti, quello più difficile, quello che mette a durissima prova la mia tenuta mentale e le mie motivazioni. Infatti, dopo lo scudetto Allievi, il percorso delle giovanili entra nella biennalità e l’impatto con i Cadetti, quindi con ragazzi più grandi e fisicamente più prestanti di me, è complicato. Di fatto io sono un classico trottolino, veloce, sgusciante, ma fisicamente minuto e in mezzo a quei colossi rimbalzo via come una pallina da flipper, non trovo spazio e sventolo l’asciugamano per tutta la stagione. Però, ho inserito sotto pelle il motto: “qui non si molla mai” e nonostante le botte e la soverchiante differenza fisica con i miei compagni mi alleno come un matto, affino ancora di più la tecnica e caratterialmente non faccio un passo indietro. Così, quando a settembre mi ripresento al gruppo, dieci centimetri più alto e più fisicato capisco quanto è stato importante l’anno trascorso in  “cantina” e, soprattutto, permettimi l’autocelebrazione, mi faccio i complimenti da solo per aver tenuto botta in una situazioni in cui molti avrebbero forse passato la mano scegliendo soluzioni più comode. Certamente più facili”.

E lì inizia anche la tua carriera senior, giusto?
“Esatto: quello è il periodo in cui dirigenti e staff tecnico decidono che è tempo di farci respirare l’atmosfera della prima squadra, un’esperienza fondamentale per capire le enormi differenze tecniche, ma soprattutto mentali tra giovanili e senior. Solo in qualità di ragazzino inserito in uno spogliatoio di adulti capisci che quello giocato dai “grandi” è un altro sport. Io, come Martino Rovera, Gatti, Passera jr. e altri abbiamo avuto la fortuna di avere maestri come Ferraiuolo, Pagani, Corti, Coerezza che tra consigli tecnici, dritte “di vita”, esempi concreti e sano nonnismo ci hanno spianato la strada insegnandoci tante cose. Oltre ai “senatori” ho e abbiamo totale gratitudine verso coach Franco Passera che prima ci ha dato fiducia, poi ci ha fatto esordire in B2”.

In seguito il vostro gruppo è stato protagonista nelle file del Campus, in serie C1: consideri un passo indietro questo declassamento?
“No, nella maniera più assoluta. Prima di tutto occorre sottolineare che il Campus prende vita dalla volontà e dalle idee di due grandi personaggi come Toto Bulgheroni e Cesare Corti, i quali in anticipo sui tempi intuiscono l’importanza di partecipare ad una categoria “cuscinetto” tra le giovanili e la B2 e A2. Poi, bisogna aggiungere che ai tempi il dottor Corti ci “vende” benissimo il prodotto, ovvero l’importanza di giocare minuti veri, con responsabilità vere in un campionato di formazione e maturazione. Non a caso, dopo l’esperienza Campus torniamo tutti in B2 (e qualcuno anche più su) più tosti, preparati mentalmente e pronti per giocarcela anche al piano di sopra”.

Cosa ti resta del cammino in B2?
“Tanti momenti positivi e centinaia di ricordi, quasi tutti belli. Sintetizzando potrei dire l’orgoglio di aver fatto parte di un gruppo che in alcune stagioni è “100% Made in Robur”. Noi ‘sta cosa la sentiamo e quando affrontiamo le classiche squadre di mercenari strapagati, ma senza anima, ci carichiamo al massimo. Quando, ancora oggi, snocciolo come un mantra Ucelli, Vescovi, Premoli, Fontanel, Vasini, Colombo, Corti, Rovera, Santambrogio, Rosignoli, coach Zambelli, vice Garbosi mi sale un fremito di passione perché essere roburini e, era, soprattutto quello: sentirsi uniti da un DNA comune. Come sentirsi fratelli senza essere nemmeno parenti. Una sensazione impagabile. Poi è chiaro, ogni tanto affiorano anche momenti di malinconia. Per esempio quando ripenso alla finalissima playoff persa contro Bergamo. Per esempio quando rivedo la parabola pazzesca del tiro di Biffi, quello che ci condanna, e risento quell’urlo che mi si strozza in gola. Anche noi avremmo meritato quella promozione, ma il “culo” quella volta sceglie di premiare gli orobici”.

Dopo la Robur, cosa succede?
“Vado per un anno ad Arona in C1 e con la “macchinata” di varesini – Del Torchio, Manzo, io e Laudi -, mettiamo in scena una buona annata, culminata con una semifinale playoff persa contro Legnano. Poi rientro di nuovo a casa, al Campus in C1 per tre stagioni e chiudo ad un certo livello con l’ultimo anno al 7 Laghi Gazzada, ma il post-laurea (in marketing e comunicazione d’impresa) e gli impegni lavorativi si fanno sempre più pressanti e la pallacanestro, giustamente, cambia posizione nelle mie priorità. Oggi il basket si declina con due tiri e un paio di corse con gli amici del Basket Sacro Monte”.

Adesso, corsi e ricorsi della storia, sei un dirigente importante della tua Robur. Cosa pensi, in generale, dell’attività a livello giovanile e di quello che state facendo in R&F?
“Premessa obbligatoria: l’introduzione degli Under ha rappresenta, e rappresenta tuttora, il primo colpo di piccone dato alla base del movimento giovanile. Stabilire una regola che premia gli Under ha avuto un chiaro significato: premiare la carte d’identità anziché il merito. Un criterio sbagliatissimo, a mio parere. Poi, in sovrapprezzo, sono arrivate tante norme astruse vedi, fra tutte, quella sui parametri. Detto questo, che la situazione dei settori giovanili italiani, nostro compresso ovviamente, sia abbastanza grave è dimostrato dall’esiguo numero di giocatori prodotti ad alto livello. Di fatto, credo che i settori giovanili torneranno ad essere competitivi quando sarà di nuovo remunerativo investire su di loro perché, appunto, oggi il sistema dei parametri non può mai giustificare gli investimenti fatti dalla società in questa direzione. Il settore giovanile ormai, incagliato così com’è in regole autolesioniste, è una sorta di movimento filantropico o, detta in termini di più crudi, di mecenatismo “a perdere”. E ormai sono numerosi i club che non si possono più permettere questo andazzo e, comprensibilmente, mollano. Infine, non di meno, c’è la questione tecnica con allenatori che, anziché insegnare pallacanestro, sono troppo impegnati a fare tatticismo già a 13-14 anni. Nel campionato Under 13 ho visto allenatori preparare le partite – ripeto: pre-pa-ra-re le partite – contro un giocatore avversario e inseguire un solo obiettivo: il risultato. Un comportamento a mio parere pazzesco che, ovviamente, non ci porterà da nessuna parte. Così, quello che chiedo ai miei allenatori è di non barattare mai il risultato di oggi, con il possibile e sperabile futuro di domani. E’ una strada lunga, che richiede sforzi e un deciso cambio di mentalità, ma a mio avviso è l’unica che ci può salvare. Ed è l’unica strada che, in qualsiasi disciplina sportiva si troveranno ad affrontare, auguro ai miei figli: Tommaso, classe 2007, che ama il canottaggio, Pietro, classe 2009, che ha già addosso la “pelle” Robur, e Matilde, classe 2013, la piccola di casa che fa pattinaggio artistico. A loro io e mia moglie Camilla diciamo che lo sport è principalmente divertimento, amicizia, felicità, piacere di stare in compagnia. Dovesse diventare qualcosa di più, ci penseremo a suo tempo”. 

Chiudiamo, come di consueto, con i tuoi quintetti e le tue dediche.
“Quintetto giovanile con Passera, Lollo Gergati, Martino Rovera, Allegretti e Gatti. Ho inserito due Pallacanestro Varese come Gergati e Allegretti per la magia scatenata nei nostri accesissimi derby. Coach: Alberto Zambelli”.

Senior?
“Qui ti schiero una squadra al completo con titolari e cambi. Quindi: Ferraiuolo-Vasini; Rovera-Laudi; Premoli-Mondello; Vescovi-Del Torchio; Fontanel-Corti. Come vedi, dieci grandi giocatori ma, di più, dieci fantastici amici. Coach: Franco Passera”.

Dediche?
“Avendo già detto di Toto Bulgheroni e Cesare Corti, vorrei chiudere con Gianni Asti, l’indiscusso “guru” del movimento roburino. Il suo esempio e le sue parole sono sempre con noi”.

E Carlo, tuo padre?
“A lui, come ho già detto, devo il piacere e il pregio di una silenziosa presenza. Poi, da quello che so, deve già pagare un’infinità di cene ai suoi ex-ragazzi che, nei tuoi articoli, hanno esaltato il suo lavoro. Quindi – conclude sereno Andrea -, questa volta è meglio fermarsi qui”.

Massimo Turconi

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