Bella la vicenda umana e cestistica dell’ “Uomo di ferro”. Fulvio Fontanel, noi avversari, l’abbiamo sempre chiamato così: uomo di ferro. Un po’ perché Fulvione, con quel fisico imponente trasmetteva (trasmette tuttora…) un’idea di grande solidità e resistenza. Un po’ perché Fulvione ti dava l’idea che per spostarlo dalla posizione di post basso, la sua preferita, servisse una di quelle immense gru che si usano nell’industria. Molto perché Fulvione, classe 1970, pur non essendo esattamente una Silfide, correva avanti e indietro per il campo senza mai mostrare segni di stanchezza fisica o di cedimento mentale.  

Lo farà, correre e giocare intendo, ad alto livello, per oltre 25 anni. Sempre pronto a coniugare esigenze e bisogni della squadra esaltando se stesso e i suoi compagni con la sua pallacanestro asciutta, essenziale, ma tremendamente efficace sui due lati del campo. Ma, soprattutto, sempre, sempre presente sul parquet, caratteristica tipica ed esclusiva dei giocatori, appunto, “di ferro”. Come Fontanel che, giusto per essere chiari, ha messo il suo nome a referto per ben quattro decenni: anni ’80, ’90, ’00 e ’10. Scusate se è poco…
“In effetti – riflette Fontanel, classe 1970 -, la mia storia col basket è iniziata alla Santinox Samarate nei primi anni ’80 e, a livello FIP, si è conclusa nel 2015, a 44 anni suonati da un pezzo. Un arco di tempo lunghissimo durante il quale, da uomo e giocatore assolutamente fortunato, grazie alla pallacanestro ho avuto la possibilità di vivere esperienze meravigliose e conoscere tantissime persone fantastiche che ancora oggi rappresentano al meglio e “il meglio” del mio vivere quotidiano”.

Quando inizia questo “meglio”?
“Comincia tardi rispetto agli standard consueti – risponde Fulvio -. Io infatti approccio la pallacanestro a 13 anni, alla Santinox Samarate, squadra del mio paese, saltando quindi tutta la fase del minibasket e, purtroppo, ‘sta cosa si nota perché mentre i coetanei sanno già fare qualcosa, io cestisticamente sono brutto come la fame. Però, sono alto alto, quasi 2 metri, e coach Gianni Chiapparo, durante una partita giocata contro la Robur, mica guarda i miei compagni in campo. Gianni, furbo e scaltro, guarda in panchina, mi vede, o meglio mi squadra da capo a piedi e probabilmente tra sé e sé esclama: “Fontanel, visto e piaciuto, senza nemmeno provarlo”. Chiapparo e il g.m. roburino Giancarlo Gualco nel giro di pochi giorni organizzano un incontro con la mia famiglia e i dirigenti di Samarate e al modico prezzo di una fornitura di palloni mi ritrovo, ovviamente felicissimo, con addosso la mitica canottiera gialloblu dell’ABC Utensili Varese. Lo staff tecnico della Robur è un po’ meno felice perché di pallacanestro ne mastico davvero pochina e il lavoro che li attende a 360°, ovvero parte tecnica e atletica, è improbo. Però, in compenso, sono il classico sgobbone, ho tantissima voglia di allenarmi, migliorare e lavorare su me stesso e le mie evidenti lacune. I primi mesi in Robur sono una sorta di “Massacro dell’innocente” perché tra sedute di atletica e tecnica faccio allenamento tutti i giorni e la domenica, ovviamente, si va al doppio. Ho il ricordo di una fatica da togliere il fiato ma, pura verità, i risultati positivi si apprezzano abbastanza in fretta e alla fine del primo anno roburino ho già quasi colmato il gap che inizialmente mi separava dai miei compagni. Certo, l’estetica e l’eleganza nei movimenti che appartiene ad alcuni di loro resta un sogno però, via, magari in maniera un po’ meccanica inizio a offrire il mio contributo e, cosa bella, tutti sono sinceramente contenti per i miei clamorosi progressi”. 

 Come prosegue la tua carriera giovanile?
“Abbastanza bene, soprattutto quando il nostro gruppo, numericamente un po’ ridotto e senza grandi picchi di talento, si unisce ai nati nel ’71 e ’72. Insieme raggiungiamo due finali nazionali juniores, a Montecatini e Forlì, e al di là dei risultati finali (13° e 15° posto) resta la soddisfazione di essere presenti tra le migliori squadre d’Italia in un’epoca in cui dalle finali nazionali all’essere protagonisti in serie A il passo è davvero brevissimo. Non a caso, in quegli anni affrontiamo avversari del calibro di Fucka, De Pol, Ruggeri, Semprini, Ferroni, Portaluppi, Fazzi, Buratti, Anchisi e almeno due dozzine di altri giocatori poi protagonisti nella massima serie. Inoltre, aspetto doveroso da segnalare, la “filosofia” Robur et Fides ci spinge giustamente e rapidamente in prima squadra con la quale inizio ad allenarmi già a 17 anni”. 

Cosa ricordi dei tuoi approcci con la prima squadra?
“Nei miei primi due campionati ricopro due ruoli ben precisi: faccio lo sparring-partner in allenamento a beneficio di Della Fiori e, praticamente, sventolo l’asciugamano durante le partite perché oltre a Ciccio, Pagani, Zorzi e compagnia, ho davanti anche Coerezza, centrone che, rispetto a me, “spiega” pallacanestro. Dopo due anni di eccellente apprendistato, la Robur mi spedisce in serie C all’Elah Genova, società emergente nel panorama ligure. Il progetto genovese, tecnicamente coordinato da coach Bruno Brumana, è a dir poco faraonico, sicuramente sovradimensionato per la categoria, ma purtroppo dopo i buoni risultati ottenuti il primo anno – semifinale playoff -, nella seconda stagione va in scena un progressivo ridimensionamento. Così, anche perché richiamato dalla “casa madre”, torno a Varese, ma lascio Genova con un pizzico di malincuore perché sotto la Lanterna ho trascorso due anni alla grandissima, divertenti, molto formativi sotto il profilo tecnico e tattico e interessanti sotto il profilo umano grazie alla presenza di compagni di squadra di alto livello come Morando, Trubianelli, Leoncini, Patrone e altri”.

ABC secondo giro, seconda corsa: cosa succede?
“In Robur gioco quattro stagioni consecutive tutte in crescendo tecnico e mentale. Ricordo lo stupore negli occhi dei miei compagni perché probabilmente nemmeno loro pensavano di ritrovarmi così migliorato, intenso ed efficace. Dopo un anno di “break” in C1 all’Olimpia Legnano del presidente Ambrogio Bassani, dirigente assolutamente, totalmente “innamorato” della sua creatura, torno di nuovo in Robur per altre tre stagioni con Benelli, Gergati e passera come allenatori. Ma anche in questa occasione, dopo qualche stagione mi manca l’ossigeno e, da personalità un po’ “nomade”, sento il bisogno di cambiare aria e varcando il confine approdo in Piemonte per alcune stagioni, tutte vincenti, spese tra Oleggio e Borgomanero. A “Borgo”, in una squadra fortissima, in un ambiente come ne ho visti pochi per entusiasmo e passione, e in una società davvero organizzata e accogliente, produco campionati con numeri incredibili – 1070 punti segnati in due stagioni e sempre ai primissimi posti nella classifica dei rimbalzisti del girone -, ma alla fine il richiamo di “Mamma Robur” prevale. La mamma questa volta ha la voce di coach Alberto Zambelli che mi sceglie come centro titolare mettendomi al centro del suo progetto tecnico. La terza “reincarnazione” è quella giusta perché resterò in Robur 7 anni, i più belli e importanti della mia carriera non solo per le emozioni vissute, non solo per le vittorie conquistate – 2 Coppa Italia di categoria, due finalissime per salire in B1 prese a gara-5, e una presenza costante nei playoff -, ma soprattutto per la bellezza, il piacere e l’orgoglio di giocare insieme a compagni di grandissimo livello come Cecco Vescovi e Paolino Conti, stupendi professionisti, e un’infinità di ragazzi che mi onorano della loro preziosa amicizia. Penso a Paolo Lombardi, Vasini, Premoli, i fratelli Rovera, Matteucci, il dottor Masotti, Conti, Corti, il mitico Barausse, Andrea Colombo e chissà quanti altri, mi scuso con loro, ne ho dimenticati. Infine, dopo il settennato roburino chiudo la carriera agonistica a buoni livello con altre tre campionati: 1 al Bosto e 2 a Castronno. Ma il “richiamo della foresta”, ovvero l’irresistibile magnetismo del parquet, del cerchio e della retina, non molla. Così eccomi ancora in campo, per purissimo divertimento, con i Moschettieri di Varese, squadra UISP con cui da diversi anni ci divertiamo a fare i classici “2 tiri” e vincere campionati. Una formazione che, lo ammetto, è decisamente illegale perché, a parte il sottoscritto, vi giocano tra gli altri Biganzoli, Fanchini, Mondello, Marini, Borghi, Agazzone, Antonini e Figini. L’appuntamento, quasi fisso, è il derby playoff contro Sesto Calende in cui affrontiamo altri ex-roburini come Del Torchio, Laudi, Lollo Bini e compagnia”.

Ma, insieme a queste “gare-scampagnata”, oggi cosa rappresenta per te la pallacanestro?
“E’ ancora una parte attiva, importante e impegnativa della mia giornata perché, con l’attenta regia di mia moglie Cristina, ex insegnante di nuoto alla Robur, e seguendo mia figlia Martina, classe 2001 (c’è anche Edoardo, classe 2003, 197 cm di talento, che gioca a Gallarate, ndr), mi sono avvicinato al basket femminile e ormai da tre anni sono general manager al BF Varese, club per cui seguo da vicino l’attività della prima squadra che, coronavirus permettendo, disputerà il campionato di serie B“.

La conclusione, come sempre, è dedicata ai tuoi quintetti.
“Il quintetto della Robur, noblesse oblige, lo dedico ai miei ex-compagni roburini che hanno giocato in serie A: Ferraiuolo, Dacio Bianchi, Vescovi, Paolino Conti e Della Fiori, con Romano Pagani, uno che la serie A l’avrebbe meritata alla grande, nelle vesti di cambio di lusso e la coppia Franco Passera-Alberto Zambelli come allenatori. Poi apro uno spazio per il quintetto del divertimento, quello UISP: Fanchini, Marini, Biganzoli, Giorgio Borghi, Mondello con Agazzone cambio lussuoso e Angelino Monti come allenatore”.

L’avversario più difficile da marcare?
“Risposta facile: Gregor Fucka ma, vabbè, qui si parla di pallacanestro di livello superiore. Invece, restando “al piano” che ho frequentato per 25 anni, 17 dei quali nella Robur, direi Kapedani, giocatore durissimo, intenso, agonisticamente cattivo. Ogni volta contro il “Kape” finiva in rissa, con gomitate assassine, maglie strappate, giocate sporche, legnate, parolacce, pallonate in faccia e, spesso, qualche espulsione e oggi, ovviamente, come scritto nei sacri testi, siamo amicissimi”.

L’ultimissimo pensiero, per chi è?
“Per Ciccio Della Fiori e per i suoi pantaloncini-semaforo”.

Cioe? Spiega, meglio, please…
“Ogni tanto in allenamento Della Fiori si presentava con degli improbabili, e abbastanza brutti, pantaloncini marchiati Valtur. Quando Ciccio indossava quei pantaloncini intendeva lanciare un chiaro avviso a tutti: “Questo è il mio allenamento-vacanza, lasciatemi stare, non avvicinatevi troppo e soprattutto non rompete le palle, altrimenti questa sera finisce male”. Come dire “Fontanel avvisato, mezzo salvato!”. Grande, impareggiabile Ciccio. Giocatori come lui, non ne “stampano” più, purtroppo”.

Massimo Turconi

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