“Cosa darei per vivere una favola…”. Penso che queste parole siano quasi perfette per rappresentare plasticamente la vicenda sportiva di Mario Di Sabato, playmaker classe 1973 cresciuto nelle formazioni giovanili della Pallacanestro Varese.
Mi piace pensare che nelle strofe della famosa e notissima canzone di Vasco Rossi ci sia tanto di quello che Mariolino ha vissuto nel mondo della pallacanestro giocata. C’è il riferimento a quelli che “sembrano più grandi”. E anche quello che riguarda le “genti più capaci”. 
Eppure Di Sabato, grazie all’enorme impegno, motivazioni a mille e incrollabile determinazione, è passato sopra la testa ai presunti grandi e a quelli ritenuti, a torto, più capaci. Così Mariolino la sua favola se l’è costruita col sudore, la fatica e un palleggio dietro l’altro e partendo dalla buia ma “mitica” spelonca di via Rainoldi è arrivato fino al luccicante Palasport di Masnago. 

Bravissimo, dunque, Mario nel giocarsela con gli avversari e, soprattutto, nell’abbattere i pregiudizi e gli sguardi “testa-piedi” di coloro che, siccome “la spiegavano”, sembravano autorizzati a dirgli: “Ma dove pensi andare con quel fisico lì?!?”.  
Mi piace pensare che Mario, sfoderando un sorriso carico di ironia abbia semplicemente risposto: “In serie A. Dove, sennò?”. Perché comunque Di Sabato, anche se per pochi minuti, il piede in campo in serie A l’ha messo e se questa non è una bella favola a lieto fine, dimmelo tu cos’è (cit).
“Per dir la verità – esordisce con un sorriso Di Sabato -, la mia favola è iniziata nel corridoio di casa, lungo il quale consumavo interminabili sfide contro mio fratello Enrico che, inevitabilmente, essendo più grande (classe 1964), prima mi batteva come un materasso, poi mi usava come pallone infilandomi direttamente nel portaombrelli. Da Enrico, seppur giocando, ho imparato come bisognava stare al mondo contro “gente” più grande, grossa e cattiva”.

Superato l’esame “corridoio” cosa succede?
“Succede che a 6 anni inizio, appunto, i corsi di minibasket alla Rainoldi, istruttori Vincenzo Crocetti e Maurizio Volpe, e dopo pochi giorni di frequenza ricevo quello che ancora adesso considero il più emozionante regalo cestistico della mia vita: la borsa della Ciao Crem Pallacanestro Varese regalata dalla società a tutti i bambini. Quella borsa era sempre con me. Ci andavo anche a dormire e la mostravo orgogliosamente a tutti. 
Dopo i tornei Ragazzi e Propaganda il gruppo, un mix di nati nelle annate ’72-’73 e ’74, comincia ad essere un abbozzo di squadra nella categoria Allievi assumendo la sua fisionomia definitiva a livello Cadetti, affidato ai coach Piva e Besio, con i vari Oldrini, Pirovano, Ferrari, Bottelli, Bombelli e, soprattutto, noi del ’74 che siamo il nucleo più numeroso. Con questo gruppo ci presentiamo alle finali nazionali Cadetti di Trapani tra la sorpresa generale perché da diversi anni non si vedeva un team marchiato Pallacanestro Varese”.

Però, diciamo la verità, a livello giovanile risultati pochini…
“Confermo: numerose partecipazioni alle fase interzonali e alla finali nazionali, ma nel complesso zero risultati da ricordare ed il motivo è semplice. Nella classe ’72 i giocatori sono proprio pochi. La classe ’73 offre un po’ di più, in particolare il talentuoso Andrea Bottelli, mentre nei ’74 ci sono Besnati, Sessa, Mattarello, De Dionigi e soprattutto Andrea Meneghin che già a 13 anni sulla maglietta ha stampato “Fenomeno”. Giochiamo bene, abbiamo tigna da vendere e siamo tosti caratterialmente, Ma queste qualità non bastano per dare fastidio agli squadroni, in particolare Benetton Treviso e Fortitudo Bologna, dominanti in quel periodo. Però, al di là del risultati, io ricordo l’esperienza nelle categorie giovanili come qualcosa di unico, impagabile e irripetibile, se ripenso agli accesi derby contro la Robur. La stracittadina richiamava centinaia di spettatori ed era un evento atteso da tutti: tifosi di entrambe le fazioni, appassionati e addetti ai lavori. Per noi ragazzi, poi, si trattava di partite speciali perché vincerle significava garantirsi il permesso di prese per il cu…ore nei confronti degli amici roburini per almeno un mese. Ovviamente, valeva anche il contrario. Ma, oltre al derby di città sentivamo in maniera straordinaria anche i derby classici contro Olimpia Milano e Pallacanestro Cantù che però, devo ammetterlo, in quegli anni erano leggermente più attrezzate di noi”.

Tu, però, entri abbastanza presto nel giro della prima squadra.
“A 12 anni – rilancia con una pronta battuta Mario -. A quell’età infatti, insieme al mio compagno Filippo Sales, figlio di Riccardo coach della prima squadra, prepariamo uno striscione in onore di Meo Sacchetti e con grandissima soddisfazione lo srotoliamo prima di ogni partita a Masnago. Battute a parte, già a 16-17 anni allenatori e dirigenti ci fanno respirare, a turno, l’atmosfera della serie A”.

Dunque, cosa ti è rimasto “nei polmoni” di quella esperienza?
“Prima di tutto e, più importante di tutto, l’onore di aver vestito la maglia della prima squadra della mia città e della società in cui sono cresciuto. Poi, è chiaro, aver mandato all’archivio alcune presenze in serie A. Per dire: dopo la prima convocazione per la partita di serie A, l’entusiasmo e la carica sono tali che avrei potuto schiacciare con le orecchie. Infine, il piacere di aver conosciuto ed essermi allenato con grandissimi giocatori”.

Hai giocato con Reggie Theus, croce e delizia, di quell’anno maledetto sfociato in una clamorosa retrocessione: un aneddoto?
“Gli episodi, alcuni dei quali anche particolari, sarebbero innumerevoli. Tutti però mettono in evidenza il carattere, diciamo così ridondante, di Reggie che in gara come in allenamento non usciva mai dal suo ruolo di “stella”. Memorabile nelle ultime azioni delle partite lo schema “Two Low” che in italiano si può tradurre con un chiarissimo “Palla a me e gli altri fuori dalle palle, please”. Uno schema che, tra l’altro, faceva incazzare non poco i compagni più anziani e importanti. Poi, giusto per segnalare il suo sconfinato livello di autostima, Reggie nelle, solitamente lunghissime, sessioni di tiro a fine allenamento, dopo aver infilato 10 tiri “solo rete”, con un sorriso smagliante faceva ciao ciao alla compagnia dicendo: “Ragazzi, dopo un 10 su 10 così perfetto, non si può correre il rischio di rovinare il “magic moment”. Puoi dargli torto, a uno così?”.

A proposito di momenti magici, c’è quello del tuo esordio in serie A, a Bologna contro la Fortitudo.
“In realtà il prologo è più interessante del debutto stesso. La squadra infatti arriva al PalaDozza con largo anticipo e dopo le rituali fasciature mi preparo, come si dice in gergo, per andare a “provare” i ferri. Quella volta però vedo che nessuno dei miei compagni già pronti mi segue, ma mi basta uscire dal tunnel per capire il perché dello strano comportamento dei miei  “amiconi”. In zero secondi mi arrivano infatti addosso un miliardo tra insulti pesantissimi, sputi, fischi, accidenti e così via. Così, mascherando una certa “nonchalance” – mica potevo scappare via, anche se lo avrei fatto più che volentieri -, abbozzo un paio di tiri, qualche palleggio e con falsa leggerezza torno di volata negli spogliatoi. In partita invece, stante la situazione falli, coach Roberto Piva mi spedisce in campo: 5 minuti durante i quali la mia difesa “da carogna” manda fuori di testa Corradino Fumagalli. Il play bolognese protesta, si becca tecnico più espulsione e la gara, proprio su quell’episodio, gira a nostro favore perché vinciamo una partita importante. Ma quei cori d’insulti li sento rimbombare ancora adesso nelle mie orecchie”. 

Lasciata la serie A comincia, per davvero, la tua carriera nelle serie minori.
“La mia prima fermata, stagione 1993-1994, è giusto dall’altra parte della strada: alla Robur et Fides, un buonissimo banco di prova. Un’annata che ritengo determinante perché in quella stagione comprendo il vero significato del basket senior. Fin dai primi allenamenti capisco per giocare insieme a uomini di grande valore tecnico e notevolissimo spessore umano devo mettere da parte alcuni comportamenti da “pirla” o, se vogliamo, da ragazzino delle giovanili. Quindi, devo solo ringraziamenti a coach Arturo Benelli e a giocatori come Romano Pagani, Chicco Zorzi, Vincenzo Sciacca, Michele Crespi perché le loro lezioni e consigli saranno utilissimi in tutta la mia carriera senior”.

Come la descriveresti?
“Non lunga perché a buoni livelli ho giocato solo otto stagioni, ma certamente soddisfacente. Conservo eccellenti ricordi dei campionati giocati in C1 sia a Gavirate, sia a Legnano. Invece, l’anno trascorso a Como, non esattamente positivo, è stato quello che ha fatto disamorare delle categorie spingendomi verso la pallacanestro giocata solo per divertimento e solo tra amici. Quindi, per definizione, il basket che si giocava ai Rams Daverio”.

Circolano ancora “leggende” su quello che combinavate in campo tu e il Menego.
“Il confine tra leggende e realtà è abbastanza sfumato e comunque, quando c’è il Menego di mezzo, casino e risate sono assicurati. In ogni caso, in quegli anni a Daverio ci siamo divertiti come mai. Anzi, voglio essere preciso: ci siamo divertiti come quando giocavamo nelle giovanili. Detto questo, tutti nell’ambiente sanno che Andrea è praticamente mio fratello di sangue. Lo conosco da quarant’anni, siamo cresciuti insieme e ad un certo punto della nostra vita, ovvero prima di metter su le rispettive famiglie, abbiamo anche diviso lo stesso tetto. Tra noi c’è un’intesa naturale e sentimenti di amicizia, affetto e solidarietà che ormai hanno ampiamente superato la barriera del tempo. Però, se inizio a parlare di me, del Menego e delle nostre cazzate se vanno buoni buoni un paio di giorni. Meglio parlare d’altro, dammi retta”.

Rimpianti, quando sfogli il tuo libro da giocatore?
“Nessuno: ho avuto tutto quello che desideravo e, credo, meritavo. La serie A l’ho vista passare e ho avuto la fortuna di viverla, anche se da comprimario, ma in tutta onestà, pur essendo tecnicamente adeguato, non avevo fisico, atletismo e velocità sufficiente per stare a quei livelli. Quindi, nessun rammarico perché è stato giusto così”. 

E’ il momento di descrivere la tua seconda vita sportiva: quella di maratoneta.
“Prima il jogging per tenermi in forma, poi le maratone hanno rappresentato la mia ossessione e il guanto di sfida che, in un dato momento della mia vita, ho lanciato a me stesso. Dopo aver raggiunto il massimo possibile praticando uno sport di squadra volevo mettermi alla prova, verificare i miei limiti e misurare il mio livello di resilienza. In questo senso direi che 42 chilometri e 195 metri sono un bel modo per “misurarsi”. Per questi motivi quando sono passato sotto lo striscione d’arrivo della Maratona di Parigi ho provato una felicità indescrivibile e, per certi versi, senza paragoni”.

Ultimi due capitoli: famiglia e lavoro.
“Sono sposato con Verena dal 2010 e ho due bambine Matilde, 9 anni, e Marlena, 7. Due bimbe che, guarda che caso, stanno crescendo insieme alla figlie del Menego che, guarda che combinazione, hanno la stessa età. Per quanto riguarda il lavoro, dopo la laurea in Economia ho lavorato per un paio d’anni in Vibram, ma avevo voglia di fare altro. Così insieme a Mauro Costantino, altro mio grandissimo amico, ci siamo buttati nell’avventura della “Triple” che, in buona parte, è anche un altro modo per restare nel mondo del basket. Le cose prima della pandemia andavano abbastanza bene e al punto che avevamo allargato i nostri orizzonti aprendo negozi a Legnano, Trieste, Reggio Emilia, Senigallia e Pesaro. Adesso, come tutti, stiamo affrontando qualche problema, speriamo solo che ‘sto delirio finisca in fretta”.

Chiudo, come di consuetudine con i tuoi quintetti.  
“Per le giovanili scelgo Di sabato, Besnati, Bottelli, Andrea Conti e Ceria. Per i senior invece vado con Di Sabato, Antonetti, Girardin, Maurizio Maggiorini e Lucio Sala. Avrai notato che in nessuna della due squadra ho schierato Meneghin perché lui è sempre stato uno fuori categoria, quindi fuori posto con noi “normodotati” sia tra i giovani, sia tra i senior”.

Stavo dimenticando un “p.s.”: com’è quella storia del play italo-pugliese?
“Quella – ridacchia Mariolino -, è un’altra “vaccata” del Menego e risale, se non ricordo male, all’anno dello scudetto della stella e del famoso lock-down dell’NBA. In quel periodo, in attesa che l’NBA riaprisse i battenti, arrivarono in Italia alcuni Pro americani. Tra questi il famoso play italo-americano Vinny Del Negro, che atterrò a Bologna, ma avevamo già visto e apprezzato alla Benetton Treviso. 
Un famoso quotidiano sportivo, credo fosse la Gazzetta, intervistò Meneghin chiedendogli se l’arrivo di Del Negro avrebbe cambiato gli equilibri della stagione. Andrea, “balordo” come al solito, al giornalista rispose a suo modo: “Non cambierà un bel niente perché, ti regalo una notizia clamorosa: ai Rooster Varese abbiamo appena messo sotto contratto un fortissimo playmaker italo-pugliese: Mario Di Sabato che prenderà il posto di Pozzecco e grazie a lui diventeremo imbattibili…”.

Massimo Turconi

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