Precisa. Cronometricamente precisa, e non poteva essere diversamente, la passione per la pallacanestro che da cinquant’anni “brucia” dentro Paolo Nicora, eccellente protagonista della famosa e sempre celebrata classe 1968 della Pallacanestro Varese.
Una passione che, nel suo petto, batte ancora puntualissimi rintocchi, nonostante Paolino si sia già messo alle spalle un curriculum di tutto rispetto e una brillante carriera raggiungendo buonissimi risultati come giocatore e come allenatore. “La pallacanestro rappresenta una fetta importantissima e onnipresente nella mia vita – dice in tono soddisfatto Nicora, personaggio molto noto in città per la sua attività di prestigioso commerciante -. E certamente qualcosa di più, molto di più, di un “semplice” sport dal momento che faccio basket, lo vivo e lo respiro fin da bambino perché la pallacanestro è una “tradizione di famiglia”. Mia mamma, infatti è una tifosissima della Pallacanestro Varese, da sempre presente al palazzetto a Masnago e anche in grande delle gare in trasferta, con particolare predilezione per le tante finali di Coppa dei Campioni disputate negli anni ’70. A pallacanestro ha giocato anche mio fratello Riccardo, classe ’65, ed è seguendo il suo esempio che, dopo la “classica” scuola di nuoto, mi avvicino alla palla a spicchi”.

Dove?
“Nella favolosa “spelonca” di via Rainoldi, una palestrina il cui fascino era, è, inversamente proporzionale alle sue condizioni fatiscenti. Alla Rainoldi puoi sentire ancora adesso l’aspro odore del sudore attaccato alle pareti e in quegli spogliatoi che, pur piccoli e disadorni, hanno accolto intere generazioni di cestisti diventati, in seguito, giocatori spettacolari. Alla Rainoldi trovo due personaggi come Bruno Brumana e Manuel Campiglio, grandi maestri di fondamentali ai quali, in tantissimi, dobbiamo infiniti ringraziamenti per la perfetta preparazione ricevuta e la passione che ci hanno trasmesso. Una preparazione che dopo una breve, ma bella parentesi alla Robur et Fides esitata nelle finali nazionali categoria Ragazzi disputate a Benevento, mi permette di rientrare in Pallacanestro Varese orgoglioso allievo del mio “papà cestistico”: Joe Isaac. Al termine della prima stagione, nonostante fossi molto più giovane, ho il piacere di essere aggregato al gruppo dei nati nel ’65. Brumana, valutando i buoni risultati del mio doppio impegno – basket e scuola -, mi premia con la convocazione per le finali nazionali Allievi di Porto San Giorgio in compagnia, come detto, dei ’65: Ferraiuolo, Lo Duca, Cervini, Gatti, Miaschi, Crespi e soci. Poi, è il turno del nostro gruppo ’68 che, nel frattempo, si va formando con l’arrivo alla spicciolata di alcuni ragazzi frutto di un buon lavoro di reclutamento”.

Il “famoso” gruppo ’68, aggiungerei.
“In effetti, una squadra giovanile capace di produrre tre giocatori stabilmente in serie A come Brignoli, Castaldini e altri 5-6 buonissimi protagonisti dalla B in giù non capitava proprio tutti i giorni, nemmeno in quegli anni così produttivi di giocatori di alto livello. Con quel gruppo disputiamo le finali nazionali Cadetti a Catanzaro, nelle quali arriviamo quinti, e quelle juniores a Udine, in cui arriviamo secondi perdendo la finalissima contro la Benetton Treviso di Vianini, Bortolon, Savio, Mian e compagni. Legato a quello “scudettino” resta in tutti noi un pizzico di rammarico perché, pur riconoscendo tutti i meriti dei trevigiani, dico che per noi sarebbe stato sufficiente avere un paio di rotazioni in più per portare a casa il titolo”.

In quegli anni ti dividi tra campionati giovanili e la vita da aggregato nella rosa di serie A.
“Un’esperienza stupenda e assolutamente magica – commenta Paolo con un pizzico di nostalgia -. E’ difficile poter rendere, con le parole, la soddisfazione e il senso di orgoglio provato nell’aver fatto parte della squadra di serie A per alcune stagioni. Ricordo l’immensa gioia e il triplo salto mortale carpiato quando Marino Zanatta mi comunicò la bella notizia. In quegli anni ho avuto l’opportunità di allenarmi con grandi campioni, il privilegio di  conoscere dall’interno le dinamiche del mondo dei professionisti, la fortuna di costruire relazioni con tanti uomini di valore che, uno più dell’altro, con i loro consigli, suggerimenti, considerazioni ed esempio visivo, hanno rivestito un ruolo fondamentale nella nostra crescita tecnica e umana. Uomini che, giusto per rinforzare il concetto, si fermavano a vedere le nostre partite a livello juniores e all’allenamento del giorno dopo  ci offrivano il loro punto di vista e ci spronavano a migliorare. Grandi giocatori che vivevano insieme a noi e, checché se ne possa pensare, ci trasmettevano il valore della maglia e dell’appartenenza ad un club importante e prestigioso come Varese. Gli stessi sentimenti che, non sarebbe nemmeno il caso di sottolinearlo, ci venivano passati da Toto Bulgheroni, sempre presente e attentissimo alle nostre partite giovanili, Marino Zanatta e tutti i dirigenti della società. Così, alla fine dei conti, esserci stato, aver messo via quelle esperienze indimenticabili e aver vissuto quei momenti fantastici, è stato ben più importante dei minuti che ho effettivamente giocato”.

Al termine del cammino in Pallacanestro Varese inizia la tua lunga carriera nelle serie minori. Quali sono state le tappe più significative?
“Sono state tutte interessanti e, paradossalmente, quelle con qualche nota negativa in più sono state importanti per capire quali fossero i comportamenti da evitare. Comunque, dopo Varese vado a Venegono in C1, al CMB Rho in C1 conquistando la promozione in B2, poi, quasi per caso, finisco a l’Aquila che, senza dubbio, è stata la tappa da ricordare nella mia carriera”.

Beh, a L’Aquila “per caso” merita una riflessione aggiuntiva.
“In quella stagione, 1989-1990, mi aspetta la serie B2 nella Forze Armate. Però, appena arrivo a Vigna di Valle il colonnello Marinangeli mi dirotta nella sua squadra a L’Aquila, che disputa la serie D. Sulle prime il trasferimento, perdendo due categorie “secche” non mi convince granchè. Invece, a conti fatti, a L’Aquila avrò modo di vivere una delle esperienze cestistiche più belle della mia vita. In Abruzzo infatti mi fermo ben cinque anni realizzando, come giocatore, una scalata dalla D alla B2 mentre come allenatore guido squadre giovanili, la prima squadra in B Femminile e insegno pallacanestro nelle scuole. Nel 1994-1995 torno a casa perché, giustamente, mio padre mi richiama ai miei impegni nell’attività di famiglia, però continuo a giocare per diversi anni in serie C1 a Borgomanero, Castellanza e Olimpia Legnano”. 

Che riflessioni proponi ripensando alla tua carriera da giocatore?
“Sono in pace con me stesso, se è questo che intendi. Ho giocato ai livelli “giusti” e adeguati alle mie capacità. Però, col senno di poi,penso che se avessi lavorato tantissimo di più sul piano fisico per irrobustirmi e sul piano atletico per velocizzare gambe e piedi forse avrei raggiunto qualcosa di più. O, quantomeno, avrei probabilmente frequentato per un periodo più lungo certe categorie. In ogni caso, non ho rimpianti anche perché questi ultimi non servono e non aiutano”.

Quali sono i tuoi punti d’orgoglio ovvero le tue “medaglie” come giocatore?
“Sono orgogliosamente affezionato alla convocazione con la squadra lombarda del “Decio Scuri”, meravigliosa competizione che metteva di fronte le formazioni di tutte le regioni italiane, della classe 1967, quindi con ragazzi più vecchi di me. Affezionato perché mi sceglie nientemeno che coach Sandro Gamba dicendo agli altri allenatori: “Uno che passa la palla come Nicora, con quella tecnica e quell’altruismo, lo voglio sempre nelle mie squadre””.

Appese le scarpe al chiodo inizi la tua carriera come coach, giusto?
“Esatto: tutto inizia con la chiamata di Toto Bulgheroni che mi propone di tornare in Pallacanestro Varese come coach delle giovanili. Superfluo aggiungere che tornare nella mia “alma mater”, peraltro con un ruolo importante come quello di allenatore dei giovani rappresenta un altro sogno che si concretizza”. 

Fasi del “sogno”?
“I primi anni faccio da vice a Mosti e a Dodo Colombo, poi mi affidano la prima squadra vera: il gruppo dei nati nel 1987, una squadra che, mi raccontano, è formata da “pazzi scatenati” e ingestibili. Invece, si tratta semplicemente di ragazzi esuberanti – Francesco Gergati, Barbieri, De Jong, Godio, Faravelli, Alessandro Chiesa, Daverio e altri ancora -, estrosi, talentuosi e con grande vitalità. Tra noi si instaura subito un buonissimo rapporto umano e tecnico e alla fine la partecipazione alle finali regionali premierà l’impegno di tutti. L’anno successivo alleno la squadra Cadetti Nazionali, gruppo ’86-’87 formato da Canavesi, Sacchetti, Francesco Bolzonella, Lavanga, Cattaneo, Senesi, Pellegri ed Edoardo Castelli, giocatore molto forte e talentuoso che si presenta a Biella in condizioni fisiche incerte e, purtroppo per noi, gioca solo un paio di partite -, con cui arriviamo quarti alle finali nazionali di Biella. Contestualmente a questo impegno entro nell’orbita tecnica della prima squadra come secondo assistente di coach Dodo Rusconi e, in questo caso, si passa dal sogno al Paradiso perché esser parte dello staff tecnico di Pallacanestro Varese in serie A rappresenta il “top” per chiunque, figuriamoci poi per un ragazzo di Varese”.

Come racconti l’esperienza in serie A?
“A distanza di tanti anni vorrei sottolineare non tanto gli aspetti tecnici e l’elevata specializzazione tattica imparata al massimo livello cestistico ma, piuttosto, gli aspetti umani e, in buona sostanza, l’aver costruito rapporti di grande amicizia con Jerry Mc Cullough, Sandrino De Pol, Tyrone Nesby, Melvin Sanders e Dan Callahan, tutti professionisti di valore indiscutibile e persone di notevole caratura che mi hanno onorato delle loro attenzioni. Peccato solo che il cammino in Pallacanestro Varese, che ormai da tempo aveva proprietà passando dalla famiglia Bulgheroni ai Castiglioni, si sia concluso in maniera non del tutto lineare. Ma sulla scarsa limpidezza di alcuni elementi non vale nemmeno la pena di soffermarsi, credo”.

Dopo Pallacanestro Varese passi alla Robur et Fides.
“Annata di grandi soddisfazioni, spesa a grande velocità allenando la serie C1, con salvezza conquistata con una squadra giovanissima e tre soli senior, Del Torchio e i due fratelli Lucarelli, e gli juniores. Annata però breve e, anche qui, meglio non esprimersi sul perché non sia proseguita. Preferisco ricordare le bellissime stagioni, ben 7, trascorse in ambienti genuini come Gavirate e Valceresio e quella attuale ai Rams Daverio, in uno dei pochi, rarissimi club che ancora crede, ma davvero, nel lavoro svolto nel settore giovanile e dà spazio, vero, ai ragazzi costruiti in casa. A Daverio si sta benissimo e insieme al responsabile tecnico coach Andrea Sterzi, a un grande personaggio come Joe Isaac e a tutto lo staff stiamo organizzando un ottimo lavoro anche in prospettive futura”.    

A proposito di settore giovanile: partendo dal tuo brillante curriculum qual è il tuo pensiero al riguardo per un’attività che sembra essere in crisi totale dal punto di vista emotivo e “produttivo”.
“Il discorso avrebbe bisogno di molto, molto temo, tuttavia, in estrema sintesi per quello che vedo in giro mi sento di fare queste considerazioni: fin dalle categorie più basse ci si prende troppo sul serio mettendo in primo piano i risultati anziché, come si dovrebbe fare, la crescita dei ragazzi a 360°. Invece, al di là della preparazione tecnica e della dotazione di fondamentali, vedo giovani giocatori che da un lato assomigliano a soldatini inquadrati e impegnati ad eseguire complicate situazioni tattiche ordinate dai loro allenatori e, dall’altro lato, ragazzi che a 15-16 anni sono, o sembrano concentrati esclusivamente solo sulla loro eventuale carriera futura. In generale, ed è l’aspetto più triste, annoto pochi sorrisi e zero divertimento fine a se stesso. E senza sorrisi, senza divertimento, privata della componente ludica, la pallacanestro può diventare davvero deprimente”.

Nell’immaginario collettivo degli allenatore italiani tu rispondi all’identikit perfetto del professionista: bravo, intelligente, preparato e, particolare non irrilevante, ricco di famiglia. Detto questo, perché non sei mai entrato nel “circuito malvagio” degli allenatori professionisti? 
“In parte ho già risposto in precedenza ma, a domanda specifica, ribadisco: ad un certo punto della mia vita, mio padre mi ha chiesto espressamente di occuparmi, insieme a mio fratello, dell’oreficeria di famiglia rendendomi pienamente il senso dei sacrifici fatti, della grande preparazione tecnica e, se mi consenti, anche lo stile, la tradizione, la serietà che ormai ci contraddistinguono da tantissimi anni. Certo, al netto dell’amore che nutro per la pallacanestro, confermo che allenare a livello professionistico sarebbe stato il mio sogno, ma l’impegno morale assunto verso mio padre e la mia famiglia penso valgano molto, molto di più di qualsiasi altra considerazione”.

Chiudiamo questa lunga chiacchierata con i tuoi quintetti e le tue dediche. Si parte dal quintetto delle giovanili.
“Nicora, Turati, Pittis, Brignoli e Milesi, con Guido Curtarello come “ospite speciale””.

Quintetto di quando eri giocatore in serie A?
“Brunamonti, Sacchetti, Thompson, Dino Meneghin, Mc Adoo”.

Quintetto di quando eri allenatore in serie A?
“Mc Cullough, Andrea Meneghin, Vanterpool, De Pol, Galanda, con Lavrinovic ospite speciale”.

Quintetto dei tuoi compagni di squadra nelle “minors”?
“Carini, Ferrarese, Mauro Zecchetti, Michele Crespi, De Angeli, con Paolino Conti superstar”.

Quintetto da allenatore delle squadre giovanili?
“Brian Sacchetti, Canavesi, Cola, Francesco Bolzonella e Francesco Gergati, con Federico Bolzonella che ospite speciale”.

Quintetto da allenatore delle squadre senior?
“Fanchini, Mondello, Del Torchio, Alessandro Chiesa e Francesco Bolzonella”.

Il miglior giocatore che hai visto?
“Ne ho visti talmente tanti che è davvero difficile rispondere. Però, di primo acchito, dopo aver apprezzato la tremenda intensità mentale con la quale si allenava direi Arjian Komazec. Fantastico. Un vero fenomeno”. 

Allenatori che ti sono rimasti nel cuore?
“Ho un ricordo piacevole per tutti, ma per Joe Isaac e Dante Gurioli nutro particolare stima tecnica e affinità cestistica”.

Altre dediche, in conclusione?
“Oltre ai tantissimi amici, vorrei dedicare un sentito ringraziamento agli accompagnatori che mi hanno seguito nelle esperienze da giocatore e allenatore. In questo senso penso di essere stato fortunato perché ho incontrato uomini – Franco Colombo, Alfredo Tinelli, Giordano Gobbi, Marco Boni -, di grande spessore con i quali ho affrontato problematiche diverse da quelle tecniche e da tutti ho ricevuto consigli preziosi e importanti lezioni di vita. Infine, vorrei dedicare un pensiero pieno di riconoscenza e affetto al carissimo Sandro Galleani, l’unica presenza costante e salda come una roccia in tutti i miei anni passati in Pallacanestro Varese.  Sandrino è una persona a me cara che, sia da giocatore, sia da allenatore, mi ha sempre spinto a credere in quello che facevo”.

Massimo Turconi

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