Born in the USA cantava Bruce Springsteen per un successo, all’inizio contestato e mal interpretato, che poi ha solcato l’Oceano Atlantico per diventare un tormentone internazionale.
Born in the USA è una frase che può andare benissimo anche per il General Manager della Pallacanestro Varese Micheal Arcieri, nato negli Stati Uniti, a New York il 27 ottobre 1964. Una storia di vita la sua, che ha sempre visto la pallacanestro al centro, così come l’Italia. Primo di sei tra fratelli e sorelle, proveniente da una famiglia di origine lucane, precisamente di Tito, vicino Potenza, Arcieri ci porta per mano nel viaggio della sua vita, raccontandosi a cuore aperto.

Il Micheal Arcieri bambino cosa voleva fare da grande?
“Sicuramente da piccolo non pensavo di diventare un General Manager. Io vivevo nel Queens a New York, dove le case sono tutte attaccate e avevo un vicino di casa un po’ più grande di me, parlo quando avevo più o meno 5 anni e lui 10, che giocava sempre a pallacanestro. Io ero ancora piccolo, non mi avvicinavo nemmeno al ferro quando tiravo, ma rimanevo davvero affascinato nel vederlo giocare. Quando avevo 9 anni ci siamo trasferiti nel New Jersey e da quel momento in poi io ho sempre giocato a pallacanestro. Medie, Liceo, Università, fino ad arrivare ad alti livelli. Ero un discreto playmaker, tant’è che poi arrivò la chiamata della Fortitudo Bologna nel 1988, con cui giocai qualche partita in estate. Ho smesso a 32 anni, poi la panchina, adoravo e adoro tutt’ora ad allenare, prima di intraprendere il percorso manageriale. Il mio sogno però da bambino, per rispondere alla domanda, era quello di giocare come guardia dei New York Knicks”.

Insomma un uomo che amava prendersi responsabilità in campo così come ha fatto dopo dietro ad una scrivania..
“Sì, assolutamente. Per la mia formazione è stato fondamentale il percorso che ho vissuto negli Stati Uniti, partendo da New Jersey, arrivando a New York dove ho passato 12 anni e Orlando. E’ stato un percorso che mi ha permesso di capire il ruolo del General Manager, non solo a livello di gestione economica, quanto del personale, delle risorse con cui si ha a che fare ogni giorno. Ho iniziato come scout dei New Jersey Nets quando avevo 27 anni, ma non pensavo diventasse il mio lavoro ed invece il destino è imprevedibile e alla fine la pallacanestro è diventata la mia vita. Fare quello che faccio io, essere un GM è una grande responsabilità, perché dalle tue azioni non dipende solo la tua vita, ma quella della squadra, di chi lavora negli uffici, della stampa e dei tifosi anche. E’ qualcosa di importante ma mi piace e non mi pesa affatto. Voglio costruire qualcosa di bello qui in modo tale che quando avrò 70 anni e sarà in Florida a godermi la pensione, potrò dire che ho costruito, che abbiamo costruito qualcosa di bellissimo qui a Varese”.

New Jersey, New York, Orlando, l’Italia, Bologna e Varese. Un viaggio niente male finora…
“E’ vero e mai mi sarei immaginato una cosa simile. Io sono cattolico, sono credente e penso davvero che per ognuno di noi ci sia un piano più alto ben preciso. Ovviamente però non avrei mai immaginato che ci fosse questo per me. La vita sa essere davvero imprevedibile, ti sorprende sempre, ma anche per questo è bellissima. Questo non è un lavoro che ho cercato. Due anni fa, durante il covid mentre ero a Bologna mai mi sarei immaginato di arrivare qui a Varese ed invece è successo. Per me essere qui è bellissimo perché mi permette di conoscere un basket che io prima non conoscevo ed è una tappa della mia carriera che mi servirà e mi aiuterà moltissimo, soprattutto se mai tornerò negli USA a lavorare in qualche società. Varese è un posto eccezionale, vive di basket, ha una passione fortissima per questo sport e per me è una fortuna essere qui. Io amo vivere il momento, tra un po’ avrò 58 anni e non ho imparato ancora molto dalla vita. Penso che questa avventura possa insegnarmi molto”.

Come nasce il contatto con Luis Scola?
“E’ accaduto tutto in maniera molto improvvisa, grazie all’improvvisazione di Gersson Rosas. I primi contatti sono arrivati ad ottobre e da lì è proseguito tutto. Era il 13 dicembre quando abbiamo fatto la prima call io e Luis, me lo ricordo perché mia moglie ha partorito quel giorno ed infatti dovetti rimandare, (ride, ndr). Con Luis c’è stato fin da subito un dialogo onesto, sincero, schietto, non lo conoscevo come persona, lo avevo visto solo come giocatore. Abbiamo parlato molto della situazione della squadra e del progetto che lui voleva qui per Varese. Devo dire che mi ha convinto fin dal principio ma prima di accettare ne ho discusso con mia moglie e se oggi sono qui è grazie a lei, che ancora una volta ha deciso di fare un sacrificio per me e per il mio lavoro”.

Forse la parola che più rappresenta i suoi primi 6 mesi qui a Varese è coraggio. Accetta un ruolo centrale in una situazione drammatica, fa scelte importanti, come l’allenatore, Roijakkers, che poi si trova a dover “sconfessare” poco dopo. Se ripensa a quei momenti, come li valuta?
“E’ una bella domanda. C’è un detto che dice “ciò che non ti uccide, ti rende più forte”. Alla fine con l’ex coach non è terminata bene. Ma sicuramente dobbiamo ammettere che lui ha fatto un buon lavoro ma nulla è mai perfetto, con i coach, con i giocatori o con chi lavora in società. E’ però il mio lavoro gestire le varie risorse che lavorano in azienda e devo dire che, riguardando ai mesi tra gennaio e maggio dello scorso anno, vedo molte cose positive ed altre negative, ma tutte sicuramente formative. E’ stato un periodo provante, ma guardo sempre il bicchiere mezzo pieno. Quando sono arrivato la squadra era ultima con 3 vittorie e 10 sconfitte e tutto ciò di cui sentivo parlare era solo la retrocessione. Io non penso di aver fatto nulla di coraggioso, ma quando hai dei principi e delle idee ben chiare puoi superare tutto. La squadra ha trovato una propria identità, l’amore di giocare insieme e quello che oggi vediamo in campo è frutto di quello che abbiamo iniziato a costruire già lo scorso anno. E’ difficile vincere, che sia una partita o un campionato ma tutti devono sapere che abbiamo un credo, che stiamo perseguendo la strada giusta. Siamo ambiziosi, vogliamo crescere giorno dopo giorno. Ad oggi, dopo 9 mesi, mi sembra che possa dire che abbiamo tracciato una strada, che stiamo seguendo una direzione, come squadra, come società, che deve essere sempre votata alla crescita. Luis ha creato un’opportunità per crescere tanto e sta a noi ora sfruttarla”.

La squadra di questa stagione sta mostrando un grande senso di responsabilità e dedizione al lavoro anche se la vostra gestione lascia spazio a momenti di divertimento. E’ questo il segreto della vostra nuova gestione?
“Sì. Faccio un esempio. Quando Scola mi ha contattato a dicembre mi ha detto “voglio creare una famiglia a Varese, dobbiamo creare un ambiente dove si lavora con serietà ma divertendosi, dove si sta bene e ci si sente a casa, come in una grande famiglia”. Abbiamo musica in campo e negli spogliatoi, Luis viene in palestra con il suo cane ogni tanto, io ho la possibilità di andare a pranzo con mia moglie se voglio. Insomma sono tanti esempi di come ci sia un clima davvero familiare alla base di tutto e questo non è assolutamente un qualcosa che distrae dal lavoro ma anzi, permette di approcciarlo nella maniera migliore e di spendersi sempre al massimo per una causa dove si sta bene. Penso che la parola chiave per riassumere tutto sia insieme. Noi vogliamo una squadra, una società che in ogni sua componente ami stare insieme, perché da soli non si va da nessuna parte”.

Alessandro Burin

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