Vuoi per il Peo, vuoi per Ossola, vuoi per mille altri motivi, ma il fil-rouge che lega Varese e Torino è indissolubile. Una tradizione, sportiva e di vita, che un paio d’anni fa si è arricchita con un nuovo capitolo, quasi scritto dal destino: il torinese doc Ezio Rossi sbarcò al Città di Varese con l’obiettivo di tornare insieme nel calcio che conta.

Non sempre, però, le favole hanno il lieto fine. Rossi ereditò da David Sassarini una squadra ultima in classifica e, tra mille difficoltà, si arrivò alla conquista della salvezza a Sanremo; l’anno seguente, con un gruppo in larga parte costruito in prima persona, il Città di Varese si stabilizzò nella parte alta della classifica e per qualche tempo i biancorossi sognarono di essere l’anti-Novara. Poi, però, qualcosa si ruppe e a inizio aprile Ezio Rossi maturò la scelta di lasciare Varese.

“Io ho una certa età – sorride Rossi dalla sua Torino, di ritorno dal deludente e noiosetto Chisola-Chieri 0-0, – e alla mia età una persona fa più fatica a sopportare cose che non ritiene giuste. La società a inizio anno aveva detto di voler stare nella parte sinistra della classifica e noi, in piena zona playoff, stavamo facendo un ottimo campionato; c’era però troppa insoddisfazione da parte di tutti, dai tifosi alla stampa passando per qualcuno in società, e la squadra, che forse mancava di forte personalità, ne risentiva. Ad un certo punto, quindi, ho deciso di fare un passo indietro in modo da responsabilizzare il gruppo per far sì che scattasse la scintilla; direi che ha funzionato”.

Quando hai maturato la decisione?
“Sarò sincero: allenare in Serie D non mi cambia la vita per cui se accetto un incarico è perché ritengo di poter star bene in quel posto e perché ci deve essere l’ambizione. Io a Varese sono stato davvero bene e appena arrivato sentivo grandissima fiducia nei miei confronti. L’anno scorso, invece, questa cosa ha iniziato a venir meno: presi la mia scelta dopo la sconfitta interna contro il Derthona ma, siccome il mercoledì seguente c’era un turno infrasettimanale a Sestri, decisi di restare ancora qualche giorno comunicando la mia decisione alla società e dandogli così il tempo di organizzarsi”.

Alla tua presentazione avevi detto che Varese poteva rappresentare l’ultima occasione per tornare nel calcio che conta: lo pensi ancora o ritieni che possa passare un altro treno?
“Io ho tanta voglia di allenare, non so se in Serie D, in Eccellenza o con i ragazzini, ma a me piace il campo e tutto ciò che è fuori lo odio da sempre; fosse per me vivrei in cima a un monte, scenderei per allenare e tornerei su, senza badare a ciò che circonda un ambiente, anche se quando le cose vanno male diventa davvero difficile gestire il tutto. Questo preambolo per dirti che, visto il mio carattere, so bene che per salire di categoria devo solo vincere: l’ho sempre fatto in carriera, i dieci campionati vinti lo dimostrano, per cui non è detto che io non possa ritornare in alto. Se arrivasse l’offerta da una realtà in cui potrei star bene, da una società ambiziosa che ha le idee chiare allora mi rimetterei subito in gioco. A Varese c’era l’ambizione, poi non così reale a livello di investimenti, ma nessuno più dei biancorossi stuzzicava il mio appetito: lo scorso anno avremo speso circa 300mila euro e, senza il Novara che costruì la squadra con oltre un milione, ce la saremmo potuta giocare con la Sanremese fino alla fine”.

Alla luce di questo, quanto dobbiamo aspettare per ritrovarti in panchina?
“Non dipende da me. Visto il mio carattere io non telefono ai procuratori: chi mi vuole sa dove trovarmi. Chi mi vuole, però, deve essere ben consapevole che faccio anche scelte di famiglia: per muovermi da casa ne deve valere davvero la pena. Finora ci sono state delle offerte, anche dalla Serie C, ma a sessant’anni serve altro per far scoccare la scintilla; per la Serie C farei un’eccezione solo per la Triestina, ma in Serie D non mi svendo e un minimo salariale lo pretendo. Sono tranquillo, aspetto la chiamata giusta, faccio sport e mi tengo occupate le giornate andando a vedere quante più partite possibili. Campionati finiti? Il Lumezzane ha già vinto, il Sestri Levante non ancora”.

A prescindere dall’esito della tua storia con Varese, cosa ti ha lasciato quest’esperienza?
“La cosa che mi è rimasta nel cuore è l’attaccamento di quei ragazzi che ho conosciuto fin dal primo giorno: il gruppo di Fuck the Cancer, gli steward e tutte quelle persone che, silenziosamente, contribuivano alla nostra quotidianità. Poi c’era l’ottimo rapporto con la squadra: sono davvero legato ad almeno un buon 90% del gruppo e di sicuro, a differenza di quanto ho letto, non me ne sono andato per problemi interni allo spogliatoio. Ritengo di aver fatto un ottimo lavoro, dando una precisa identità di gioco visto che nessuno giocava come noi, anche il primo anno quando eravamo disperati per non riuscire a vincere. L’idea di calcio propositivo non ci è mai mancata neppure nella passata stagione: quando me ne sono andato tutti sapevano cosa fare e Gianluca Porro è stato bravo a sfruttarlo intervenendo a livello emozionale con il suo entusiasmo. L’esperienza a livello tecnico e umano è positiva, poi chiaramente alcune cose mi hanno lasciato basito…”.

Visto che hai parlato di rapporti umani, con lo staff c’era grande sintonia; è corretto?
“Non li ho nominati, ma perché non c’era quasi bisogno di farlo. Io e Neto Pereira ci stimiamo tantissimo: siamo entrambi introversi, preferiamo tacere piuttosto che leccare il **** e, anche se non ci sentiamo mai al telefono, io ho una stima immensa per l’uomo che è. Poi, lasciami dire che Paolo Bezzi merita la Serie A per la sua professionalità e un certo Paolo Bertoletti è sprecato in Serie D; con tutti i collaboratori, in generale, ho sempre avuto un ottimo rapporto, anche con chi c’era il primo anno”.

E poi c’è la società. Vuoi commentare l’episodio che ti ha visto protagonista con il presidente Stefano Amirante?
“E poi c’è la società. Diciamo che sono rimasto davvero deluso. Io ho lavorato otto mesi e ne ho percepiti sette. Il mio errore è stato quello di fidarmi di Amirante: c’era un motivo se mi ha fatto firmare alla vigilia della Coppa Italia, a settembre, e non prima. La Federazione ha dato ragione alla società perché agosto non rientrava nel mio contratto e quindi la ragione non va a me; poi ognuno si giudica davanti allo specchio. Oltre al danno la beffa: sono stato chiamato dalla Procura Federale per un esposto partito dal Varese stesso e sarò squalificato a breve per 45 giorni (squalifica ufficializzata il 23 dicembre, vedi sotto), ragion per cui appena troverò una panchina non mi ci potrò sedere per un mese e mezzo. Cornuto e mazziato: non mi è stato pagato agosto poiché stando al contratto io non avevo lavorato, ma sono stato squalificato per aver allenato. Trovo la situazione paradossale, anche perché non sono io a dover obbligare la società a farmi firmare un contratto; anzi, alle mie domande, la risposta era sempre: «Non ti preoccupare, firmiamo settimana prossima». Se non altro, denunciandomi, Amirante stesso è stato multato e inibito”.

Cosa ne pensi del Città di Varese quest’anno?
“Sono allibito dal rendimento perché la squadra per otto undicesimi era la stessa; forse l’allenatore conta… Io, all’inizio della scorsa stagione, dissi di avere tra le mani una squadra operaia che magari non avrebbe vinto ma che avrebbe fatto sudare le sette camice a chiunque; così è stato. Quest’anno non so cosa sia successo, anche perché certe situazioni sono difficili da capire se le vivi direttamente, figuriamoci se le vivi dall’esterno. Secondo me ai nastri di partenza mancava un D’Orazio in mezzo al campo ma vista la peggior difesa del campionato concedimi, con un pizzico di orgoglio, di dire che l’allenatore conta davvero”.

Ci sono delle similitudini con il tuo primo Varese? Soprattutto alla luce del viavai di mercato nella finestra invernale…
“Direi di no, perché io ereditai una squadra messa su all’ultimo memento prendendo, di fatto, i giocatori che erano rimasti; dopo pochi allenamenti avevo già deciso chi doveva rimanere e chi no. Il Varese di quest’anno, invece, con due o tre innesti validi poteva e doveva rendere molto di più: cambiato Di Renzo con Ferrario, serviva un sostituto di Mamah e un buon 2004 sulla fascia. In mezzo al campo? Ripeto, secondo me un D’Orazio in una squadra di Serie D serve sempre; non conosco personalmente Piccoli, anche se tutti me ne hanno sempre parlato molto bene. Di sicuro, però, non mi aspettavo questa involuzione pazzesca”.  

Come ne può uscire il Varese?
“Solo chi la vive dall’interno lo può sapere. Non credo ci saranno problemi di retrocessione, non voglio neanche pensarci vista la squadra; il rischio potrebbe essere quello dei playout, visto che la rosa è abbastanza corta, ma non posso credere che il Varese retroceda. Alla piazza auguro sinceramente il meglio perché Varese merita di più”.

Matteo Carraro

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