Un eurogol resta impresso per sempre, una rete risolutiva altrettanto e anche una parata decisiva equivale ad un ricordo indissolubile. Eppure per entrare nei cuori dei tifosi non serve niente di tutto questo: basta solo entrare in campo con la bava alla bocca, con la voglia di vincere, con il ringhio di pura e adrenalinica rabbia agonistica, inseguendo ogni pallone e mordendo le caviglie di ogni avversario; non serve essere un campione di classe, tecnica ed eleganza, occorre essere un campione a livello di atteggiamento. In altre parole, traducendo il tutto nel contesto del Città di Varese, basta essere come Francesco Cantatore.
Classe ’93, di professione centrocampista (ben propenso al sacrificio), sorrisi e genuina simpatia, ma nel momento in cui entra in campo il suo volto si trasforma ed ecco apparire quel ringhio di cui sopra e quella voglia irrefrenabile, quasi ossessiva, di inseguire tutto ciò che è nei paraggi. A volte sbagliando, certo, nessuno è perfetto, ma un atteggiamento del genere è contagioso e i tifosi sono ben disposti a perdonare un errore se dall’altra parte c’è costante impegno e sacrifico.
Sono questi i segreti, puri e semplici, di un centrocampista spezzino che in solo una stagione (per di più spesso da subentrato) ha saputo conquistare una tifoseria intera. Il Città di Varese ha scelto di non puntare su di lui per l’anno prossimo e i tifosi, amaramente, ne prenderanno atto; quegli stessi tifosi tra cui, prima o poi, ci sarà lui stesso perché è proprio Cantatore a confidarci: “Varese ti resta dentro, non c’è niente da fare; è una piazza magica, con una tifoseria eccezionale, e sono onorato di averne fatto parte; la mia strada ha purtroppo preso una direzione diversa da quella dei biancorossi, ma resterò sempre un tifoso del Varese e, appena ne avrò l’occasione, tornerò all’Ossola per vedere una partita”.
Cosa ti è rimasto di Varese?
“Il ricordo di una stagione meravigliosa. Io arrivavo da Lavagna, una bellissima realtà ligure, ma un contesto piccolo che non potrà mai oggettivamente essere una piazza come Varese. Quando il mio procuratore Stefano Mazzanti mi ha parlato di questa opportunità non ho né esitato né pensato altro all’infuori dell’accettare; lo ringrazio tantissimo per la trattative e per tutto ciò che ha sempre fatto per me. Sono partito da solo, lasciando la famiglia e i miei affetti, ma contata emozione e ambizione, ben consapevole di arrivare in un contesto dove non puoi sbagliare. Sapevo che vincere i playoff sarebbe stato l’obiettivo minimo e, per le mie caratteristiche, vivere con questa pressione positiva addosso mi ha dato una sensazione fantastica per tutto l’anno”.
C’è però una parte di Varese che ti è particolarmente rimasta impressa perché, a fine stagione quando sei partito per tornare nella tua Liguria, in una storia Instagram hai salutato Masnago…
“Esatto, è stata un’annata stupenda anche extra-campo per le persone che ho conosciuto in quel piccolo quartiere, lo stesso dello stadio tra l’altro, che è diventato parte del mio cuore. Da Emilio, con cui andavo sempre a bere il caffè, a Lorenzo, perché il bar La Chicchera è ben presto diventata una quotidiana tappa obbligatoria, senza dimenticarmi di Livio e delle serate al La Botte. Piccole cose che per me valgono tantissimo. E poi, ovviamente, un grande grazie va ai miei compagni e ai mister che, nel bene o nel male, mi hanno lasciato qualcosa”.
Giocare all’Ossola cosa ti ha lasciato?
“L’esaltazione. Giocare in quello stadio ti fa sentire professionista, è una sensazione stupenda e uno dei miei grandi rimpianti è stato quello di non esser stato convocato per la partita contro il Novara. Anche dalla tribuna, comunque, non ho potuto fare a meno di emozionarmi nel poter vivere una giornata del genere”.
La tua stagione, almeno dal punto di vista delle presenze, è stata un po’ altalenante; come te lo spieghi?
“Dopo quattro giorni di preparazione ho avuto un piccolo problemino muscolare, ma già dalla seconda partita, contro il Fossano, ho assaggiato il campo. Dopo Novara non abbiamo certo attraversato il nostro periodo migliore, eppure sentivo di essere in crescita così come tutta la squadra e contro il Sestri Levante credo di aver disputato un’ottima partita. Invece a Bra non sono partito titolare e prima della Sanremese mi sono fatto male di nuovo. Da lì la squadra ha iniziato un filotto di vittorie che purtroppo, al mio rientro, ho vissuto più che altro dalla panchina, ammetto che, per quanto fossi felicissimo delle vittorie, star fuori è stato difficile. Intorno a febbraio ho ricominciato a giocare un po’ di più, almeno fin quando non è arrivato mister Porro; purtroppo, in concomitanza con il cambio di guida tecnica, ho avuto un problema all’adduttore e non ho potuto contribuire sul campo come avrei voluto e potuto”.
Il contributo è arrivato da fuori visto che a Sanremo, al debutto di mister Porro, sei sceso in Liguria in treno e per di più da solo.
“Dal mio punto di vista è stato un qualcosa di assolutamente normale. Anzi, mi sentivo io in difetto per essermi infortunato e per non poter aiutare la squadra in campo. Quella mattina mi sono svegliato e ho deciso di partire: i compagni mi hanno anche preso simpaticamente in giro (ride, ndr) dato che ho fatto sette ore di treno, ma era ciò che doveva fare. Nonostante la sconfitta, paradossalmente, ero felice di aver potuto soffrire insieme a chi era in campo”.
Abbiamo parlato dei periodi meno positivi, ma ci sono stati momenti decisamente migliori; o sbaglio?
“Il momento più bello in assoluto, a parte la vittoria in finale playoff contro la Sanremese, è stato il mio gol contro il Vado. Avrei dovuto giocare titolare quella partita, ma in settimana non sono stato benissimo e mister Porro ha deciso all’ultimo di lasciarmi in panchina; prima di prendere quella decisione, comunque, ha voluto parlarmi e mi ha caricato a pallettoni per quando sarei entrato. Mi ha buttato dentro in un momento morto e proprio al 90’, grazie all’assist di Luca (Di Renzo, ndr), sono riuscito a segnare: è stato incredibile perché quel gol si è dimostrato essere importantissimo per la corsa playoff. In quel momento non capivo più nulla, ma ero orgoglioso di aver fatto esplodere di gioia i tifosi in tribuna”.
A proposito di tifosi, spesso e volentieri si è sentito il coro “Noi vogliamo 11 Cantatore”…
“Io posso dire di aver sentito “Noi vogliamo 11 Pastore”, anche se tanti altri mi hanno riferito di un coro dedicato a me; sono sincero, non ci ho mai fatto caso, ma ne sono orgoglioso. I tifosi mi volevano bene, questo è certo, e dalla mia ho questo modo di vivere il calcio che è l’unico che conosco; è la mia marcia in più e credo che un tifoso, anche se non ti conosce personalmente, gode nel vederti giocare così. Sapere che i tifosi erano con me mi ha aiutato tanto, sia quando tornavo a casa dopo una bella vittoria sia quando vivevo momenti difficili”.
Cosa ha portato mister Porro al Varese?
“Serenità in un momento difficile. Ha portato qualche sorriso in più in allenamento, aspetto che secondo me non guasta. Ovvio che si lavora e ci si concentra, ma la spensieratezza aiuta e da lì sono usciti i valori di un gruppo che è sempre strato fortissimo. Mister Porro ci ha fatto lavorare sulla tattica passando al 3-5-2 puro ed è entrato nei cuori di tutti i giocatori. Neto Pereira? Quando ero alla Fezzanese e lui al Milano City ci avevo giocato contro e già non mi sembrava vero. Vederlo la scorsa stagione nel mio stesso spogliatoio, quando qualche anno fa potevo vederlo solo in televisione, è stato incredibile; mi ha dato consigli importanti e detto parole che resteranno fra di noi e che mi porterò dentro per sempre”.
Non posso non chiedertelo: perché è finita con il Varese?
“Io sarei rimasto a qualunque costo, ma fa parte del calcio. A 28 anni di posti ne ho girati e so come funziona, ma ovunque andrò non vivrò con il rimpianto dei ma e dei se. Nel momento in cui inizierà la nuova stagione troverò nuovi stimoli e percorsi da seguire, tenendo però sempre vivo il ricordo di Varese”.
Cosa cerchi adesso?
“Un progetto, una piazza ambiziosa in cui possa mettermi in gioco. L’anno a Varese è stato per me più che positivo, e credo di aver dimostrato qualcosa; voglio quindi dare continuità al mio lavoro e ho tanta voglia di far bene in una squadra che abbia una base solida da cui partire. Forse non potrò rivivere le stesse sensazioni di Varese, ma quello di cui ho bisogno è un ambiente serio e una piazza calda che sappia farmi emozionare. Io garantisco di ripagarla sul campo con il mio atteggiamento di sempre”.
Matteo Carraro