Accettare una sfida che per molti poteva sembrare rischiosa. Decidere di scendere dal grado di head coach a quello di secondo. Entrare a far parte di una nuova cultura e metodologia di lavoro, assolutamente lontana da quella che è l’idea di basket italiano e più in generale europeo.

E’ questa la sfida che coach Paolo Galbiati ha accettato di cogliere quest’estate, scegliendo la Pallacanestro Varese per affiancare Matt Brase in un percorso tanto nuovo quanto stimolante che fin da subito lo ha convinto.

Coach, un brianzolo di Vimercate, cresciuto professionalmente nelle giovani dell’Olimpia Milano che oggi siede sulla panchina di Varese. Curiosa come cosa no?
“Sì assolutamente, (ride, ndr). A parte tutto, io la vivo molto bene come situazione. Non sono mai stato tifoso di nessuna squadra, sono sempre stato tifoso dei giocatori. E’ chiaro che essendo brianzolo sono cresciuto in quella zona, ho avuto la grandissima fortuna di fare esperienza nel settore giovanile di Milano ma sappiamo che la nostra vita ci dà la fortuna di poter viaggiare e ora sono in un posto che ho sempre guardato da fuori e che ho sempre trovato affascinante. Al di là della storia della società, io come grandi successi ho vissuto l’annata della stella e non l’epopea degli anni precedenti, essere a Varese è un onore. C’è una città che vive di basket, una società ed una struttura di assoluto livello che ti permettono di lavorare al meglio. Mi viene anche difficile definirlo come un lavoro quello che faccio, per me è più un privilegio svegliarmi tutte le mattine ed andare in palestra ad allenare”.

Nella conferenza di presentazione ha avuto il coraggio e la sincerità di dire che lei non è mai stato un vero e proprio tifoso di Varese, come spesso si fa per circostanza in quelle occasioni. Proprio la sincerità è una delle sue qualità migliori?
“Sono felice che dall’esterno si sia percepita questa cosa. Fondamentalmente la cosa che più mi piace di me è la trasparenza totale con cui affronto ogni situazione. Sono molto sincero, sono un grande lavoratore, mi piace stare sul campo, in ufficio e cerco di trasmettere questa mia passione e quanto ho imparato in questi anni, costruendo un rapporto umano importante con le persone con cui mi confronto. Quando torno in un posto dove ho lavorato la cosa più bella è vedere tante persone che ti accolgono con grande stima ed amicizia”.

E un difetto del suo carattere?
“L’essere molto testardo. A volte può essere un pregio o a volte un difetto. Poi di difetti ne ho un miliardo”.

Ha detto che si sente un privilegiato a fare questo lavoro. Questo ha anche qualcosa a che fare con la fatica che ha fatto per raggiungere così in fretta questi livelli?
“Non tanto. Privilegiato perché io faccio fatica a dire che vado a lavorare. Penso che siamo fortunati, facciamo sport che è un qualcosa che diverte noi in primis e poi gli altri. E’ chiaro che fare questo ti dà tanti pensieri, momenti liberi non ne hai mai se non quando finisce la stagione ed anche lì sono risicati. Non hai mai un weekend o un giorno per staccare. E’ particolare, però non mi pesa mai. E’ anni che faccio questo ed è bello, stimolante. Ogni stagione hai la fortuna di incontrare persone nuove sotto mille aspetti e questo ti dà stimoli sempre nuovi. Se ti fermi sei perduto”.

Al Paolo Galbiati fuori dalla palestra, ammesso e non concesso che mai ci stia, cosa piace fare?
“Ci sto veramente poco. Ho ripreso ad allenarmi un po’ di più dopo l’operazione fatta. Poi guardo partite quando non alleno. Qualche film, qualche serie tv ma poco. Leggo tanto d’estate. Fondamentalmente però sono abbastanza non da casa e chiesa ma da ufficio e campo da basket”.

Un posto del cuore?
“La secondaria del PalaLido (ride, ndr). Onestamente mi definisco un vagabondo, perché non ne ho uno. Forse la Sardegna, che mi piace molto, tutta. Però diciamo che non ho un posto del cuore, sono abbastanza limitato in questo. Dico quindi il campo da pallacanestro”.

Dall’extra al campo. Quest’anno ha accettato di entrare a far parte di un progetto che, per la sua esperienza con Torino, poteva sembrare anche molto rischioso. Dopo qualche mese le chiedo quali sono le più grandi differenze tra coach Larry Brown e coach Brase?
“E’ semplice, la differenza di età e background tra i due allenatori. Larry Brown è una leggenda che ha vinto tutto, però è arrivato in Italia a 78 anni. A quell’età è difficile capire qualche dinamica diversa. La pallacanestro è una, ma la grande differenza sta nella metodologia e nell’energia. Larry aveva un’energia ma completamente diversa da quella di Matt. Brase, avendo 40 anni, ha ancora tantissima voglia di studiare e scoprire le varie evoluzioni del basket di oggi. Brown a 78 anni, la voglia di fare questo l’aveva meno. E’ difficile cambiare il proprio modo di pensare e fare, soprattutto di un coach che ha vinto tutto in NBA. Io penso fosse un pelo troppo distante dal basket italiano ed europeo. Poi è chiaro che ambiente e condizioni erano diverse. Qui abbiamo più di un bel parafulmini dietro”.

Si aspettava, sinceramente, un inizio così in campionato della squadra?
“Sinceramente così no. C’erano buone avvisaglie, a tratti, dopo una pre-season di up and down, ma partenza mi ha stupito”.

Tra tutte le partite giocate in questo inizio di stagione, se le dico che Scafati è stato l’esame più difficile da superare, lei cosa mi risponde?
“Che hai perfettamente ragione. Era una partita che io temevo moltissimo per mille motivi: dalla grande taglia dei loro esterni, al grande talento diffuso che hanno, al ritorno della Serie A1 al PalaMangano dopo tanti anni, in una piazza molto calda. La temevamo tanto, l’abbiamo preparata bene e secondo me si è visto. Abbiamo fatto degli errori, regalando qualche punto di troppo. Potevamo vincere con un punteggio più largo ma per ora va bene così”.

E’ giusto dire che in questo momento Markel Brown è il vero valore aggiunto di questo gruppo?
“Penso sia uno dei tasselli fondamentali per quello che vogliamo fare. Intanto è un grandissimo giocatore di pallacanestro. Ha fondamentali tattici e tecnici davvero importanti, con una tecnica individuale di altissimo livello e la sua carriera divisa tra NBA ed Eurolega è lì che parla da sola. Purtroppo le tre operazioni alla caviglia gli hanno attaccato un etichetta che non gli dà merito. E’ un grandissimo conoscitore di pallacanestro, è bello parlarci e confrontarsi con lui, è molto intelligente, è un lavoratore super. Quando abbiamo costruito la squadra ci aspettavamo queste cose da lui, forse ci sta sorprendendo un filo tutti quanti ma non così tanto. Non so voi cosa vi aspettavate da lui, noi questo”.

Lei nella collaborazione con coach Brase ha la responsabilità di guidare la fase difensiva biancorossa. E’ soddisfatto, in questo senso, di quanto sta facendo la squadra? Dove pensa debba ancora crescere?
“Sono e siamo abbastanza soddisfatti di quanto la squadra sta facendo in difesa. E’ chiaro che abbiamo delle lacune strutturali, ci manca qualche chilo, centimetro, un po’ di apertura alare per coprire meglio gli spazi, un po’ di tattica perché sono quasi tutti giocatori che non conoscevano il nostro campionato e a volte facciamo errori che non dovrebbero starci ma capitano e fanno parte del percorso di crescita. E’ un gruppo però che lavora tantissimo, che si applica e che cerca di correggere gli errori che ogni tanto commettiamo. C’è grande capacità di andare oltre l’errore e per noi questo è fondamentale. Abbiamo ampi margini di miglioramento e siamo sicuri la squadra possa crescere perché è un gruppo molto dedito al lavoro”.

Ultima domanda, questa settimana arriva Venezia. Quale partita si aspetta e come Varese potrà battere questo squadrone?
“Hai detto bene. Venezia è uno squadrone, costruito per raggiungere obiettivi altissimi. Hanno rivoluzionato la loro struttura degli ultimi anni e il modo di giocare. Ora ricercano una manovra più a campo aperto, lasciando un po’ più libertà al talento rispetto alle grandissime esecuzioni che ne hanno contraddistinto il passato. Noi dovremo essere bravi a togliergli alcuni punti di riferimento, dovremo essere bravi a difendere sul gioco in pick’n’roll di Watt, sulla sua capacità di giocare negli spazi e creare opportunità per sé e compagni. La chiave sarà imporre il nostro ritmo, mandarli fuori giri e limitare le loro tante bocche da fuoco, cercando di crearci e sfruttare al massimo i vantaggi che ci creeremo durante i 40’”.

Alessandro Burin

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