
Alessandro Moscardi è un ex rugbista italiano, uno che tra gli anni novanta e fino ad inizio duemila, riuscì a collezionare sei campionati vinti tra Rovigo e Treviso, lui non rubava la scena e quando gli fu chiesto di “descriversi” trovò la frase che più gli calzò: “Sono uno che non si nota quando c’è ma si nota quando manca”. Certe affermazioni non fanno fatica a trovare eco negli altri sport, e talvolta sono abiti della stessa misura, facili da indossare anche per altri atleti. Tutto questo preambolo per dire che quelle 14 parole esatte le ha indossate, forse senza saperlo, anche Paolo Cancian, difensore classe ’84 che lo scorso maggio ha assaporato per l’ultima volta il campo, ha tolto la divisa e l’ha riposta in un cassetto. Perché lungo i suoi 32 anni di calcio non ha forse mai rubato la scena, non riempiva gli occhi dei tifosi, ma lasciava un vuoto enorme quando non era fra gli undici. “Per me il calcio è sempre stata una cosa semplice, un gioco genuino, ritrovarsi con gli amici e correre dietro ad un pallone, sono della generazione in cui ci si ritrovava all’oratorio e si giocava, si giocava, si giocava, e poi si andava agli allenamenti e si giocava ancora, non mi è mai pesato un solo allenamento, una sola partita, ora so, però, che è giunto il momento di dire stop, prima o poi doveva succedere”.
Trentotto anni all’anagrafe, trentadue sui campi da calcio, che carriera è stata la tua?
“Ho girato qualche squadra ma sono sempre rimasto in zona, nasco nel Busto 81 perché quello era il mio quartiere, poi Antoniana, Borsanese, Bienate Magnago, Fagnano, Mozzate ed infine San Marco, una carriera senza eccessi ma comunque con grandi soddisfazioni, io ho sempre dato il massimo in ogni squadra in cui ho giocato, mi sono sempre divertito, ho vinto ma anche perso, e non ho mai sbattuto la porta quando sono andato via”.

Nemmeno un rimpianto?
“Forse l’unico rimpianto che potrei avere è quello di non aver acquisito consapevolezza nei miei mezzi prima dei trent’anni, calcisticamente sono maturato tardi e questo, forse, mi avrebbe permesso di togliermi qualche soddisfazione in più, ma io sono comunque felice così, ho conosciuto tante persone grazie al calcio e queste persone sono diventate miei amici, davvero sono appagato così”.
Vuoi fare qualche nome?
“Se faccio qualche nome faccio qualche torto a qualcuno, posso dire Paolo Crea, Ivan Mastromarino, Andrea Battagion, Denis Manuzzato, sono ragazzi con cui ho vissuto l’incredibile esperienza di Fagnano o con cui ho giocato di più, sono quei compagni che anche se non rivedi per un po’ poi li incontri e nulla è cambiato, in ultimo cito Andrea Cortellaro il mio ultimo capitano alla San Marco: io nella mia vita difficilmente ho conosciuto persone così buone dentro e fuori dal campo, lui fa tutto per la squadra, tutto dalla A alla Z, è proprio un capitano a tutti gli effetti”.
Partiamo dal tuo passato più recente allora, partiamo dalla San Marco. Che esperienza è stata?
“Bellissima, davvero. Sono stato allenato da quello che reputo un grande allenatore, Daniele Efrem, ma soprattutto un grande amico, con cui sono cresciuto, ci siamo divertiti perché questa società è di quelle che piace a me, una società semplice, col senno di poi se fossimo partiti in maniera diversa avremmo anche ottenuto qualcosa in più forse, ma va bene così, è stata una stagione bella ed intensa comunque”.
Se invece sfogli l’album dei ricordi dove ti fermi?
“L’esperienza Fagnano fu incredibile, la vittoria del campionato di prima qualcosa che rimarrà nella storia e per chi l’ha vissuta da dentro come me sa che si era creata una magia, un qualcosa di speciale intorno a noi, ma devo citare anche il campionato vinto con la Borsanese in seconda categoria, l’anno prima eravamo da bassa classifica, ci sono stati 2/3 innesti e poi l’anno dopo, pur non essendo tra le big, abbiamo avuto la forza di creare un qualcosa di unico tanto da arrivare a vincere il campionato”.
Ora, però, hai preparato il chiodo e hai appeso gli scarpini, come si suol dire. Cosa ti ha spinto a farlo?
“Ho 38 anni e nella mia vita non ho praticamente mai avuto una domenica libera da passare con mia moglie, ho una bambina di 2 anni e mezzo, Olivia, ed è giusto che io mi dedichi a loro, aggiungiamoci poi che il fisico ormai ha fatto il suo, anzi quando avevo 30 anni dicevo che avrei smesso molto prima dei 38, ma poi c’è stato il covid e volevo fare una stagione completa, ci sono riuscito quest’anno ed ora il cerchio si è chiuso, è giusto così, sono felice ed appagato”.

Il punto esclamativo, però, lo ha messo proprio la tua piccola, all’ultima partita con tanto di festa e cartellone. Ci racconti le emozioni di quella domenica?
“Posso dire che si è racchiuso tutto qui: ‘Dov’è papà?’ E vedo la mia bimba con in mano un cartellone, mi sono sciolto. Non penso ci sia altro da aggiungere?”
Ma il capitolo calcio è chiuso – chiuso o in futuro c’è la possobilità che tu non possa ritagliarti qualche altro ruolo?
“Partiamo dal presupposto che adesso dovrò trovarmi qualcos’altro da fare, un altro sport, e poi chissà..se spostassero le partite al venerdì sera potrei anche rimanere nell’orbita, no a parte gli scherzi so che in tanti mi dicono che ho qualcosa da mister, però un conto è guidare i compagni in campo un conto è farlo dalla panchina e avere la testa tutta la settimana proiettata sul campo e sulla squadra, avrei anche tanto da imparare perciò non escluso la possibilità di essere d’aiuto a qualcuno, un ruolo magari marginale, poi un domani chissà, ma ora come ora sono convinto di avere altre priorità”.
Passiamo ai ringraziamenti? Quando si chiude la carriera sono d’obbligo…
“È una lista lunghissima, dovrei citare tutti i mister, tutti i dirigenti, tutti i compagni che ho avuto in questi anni, mi riservo di ringraziare solo mia moglie Sonia per la pazienza e la mia piccolina”.
Per chiudere: cosa ti porterai dietro per sempre? Qual è il più grande insegnamento che il calcio ti lascia?
“Il calcio che ho vissuto io è un calcio amatoriale, per me fino alla prima categoria non si può parlare di altro, e l’insegnamento sta proprio nella sua semplicità, nel vivere lo spogliatoio con allegria, nel giocare con gli amici per poi concedersi una birretta insieme, sta nella famiglia che si va a creare, ho visto squadre piene di soldi e di campioni ma infelici, e poi ho visto squadre normali creare qualcosa di speciale ed ottenere qualcosa di unico, per me questo è il vero calcio e spero di essere stato altrettanto genuino così come il calcio lo è stato con me”.
Non si nota quando c’è, si nota quando manca. Il calcio “amatoriale” avrà un pizzico di genuinità in meno. Buona fortuna, Paolo Cancian.
Mariella Lamonica