Quindi, fatemi capire l’arcano: avevamo bisogno di “The Flying Dutchman”, al secolo Johan Roijakkers, per vedere sul parquet i giovani più promettenti allevati dal binomio Academy Varese-Pallacanestro Varese?

Quindi, fatemi capire: avevamo bisogno che atterrasse a Masnago un coach privo di infrastrutture mentali, né condizionamenti per verificare nel concreto che due ragazzi come Teo & Nicolò dei minuti in campo non solo li possono giocare, ma se li meritano pure visto che, pura verità, finora non hanno combinati disastri verso i quale, peraltro, occorrerebbe elargire un pizzico di indulgenza dal momento che stiamo parlando di “absolut beginners”.

Quindi, giusto per chiudere il cerchio, avevamo bisogno dell’arrivo di un tecnico in grado di mostrare un po’ di coraggio (mica tanto, in realtà) per apprezzare e applaudire “ragazzini” che, finora, (vedi Nicolò Virginio lo scorso anno a Trieste) avevano visto il campo solo perché sospinti da problemi d’organico ed esigenze legate al contagio da coronavirus.

A Varese, un po’ perché stritolati dalla favolosa storia passata, un po’ per quel senso di “grandeur” certamente fuori luogo e ormai anacronistico, non siamo mai stati teneri con i giovani. Anzi, proprio la nostra “storia”, quella con la “S” maiuscola, ci ricorda che sotto le volte del “Lino Oldrini” ci siamo “mangiati” almeno diverse generazioni di buoni giocatori (alcuni ottimi) che per fare scintille sono stati costretti ad emigrare. A trovare squadra e farsi le ossa altrove. In altre piazze, meno prestigiose della nostra. Nomi?
Buttati lì, un po’ a casaccio, cito Gualco, Carraria, Salvaneschi, Bechini, Mottini, Toto Campiglio, Caneva, Ferraiuolo, Castaldini, Brignoli, Passera, Martinoni, Lollo Gergati, Allegretti, ma l’elenco sarebbe talmente lungo da arrivare alla noia. Tutti giovanotti che i primi passi importanti nel mondo del basket, la vera primogenitura cestistica non l’hanno maturata in Pallacanestro Varese. Ma, allora, giustamente, si dice, avevano davanti dei grandi campioni e, come si usa dire, “rubare” minuti, spazi di gioco e responsabilità ai “fenomeni” era praticamente impossibile.

Ma, via, sono ormai diverse stagioni che, come ricorda “Maestro Pigionatti”, in campo abbiamo visto più “magatelli” che campioni degni di questa definizione. Eppure, giovani in campo, mai visti. Nemmeno quelli per cui, pomposamente, si dichiarava: “E’ un investimento per il futuro!” e se faccio il nome di Fabio Mian – ala miglior ’92 d’Italia -, potrei scoperchiare sepolcri imbiancati.  

La verità è che la nostra “storia” ci ricorda che l’ultima volta che a Varese abbiamo visto in campo dei giovani circondati da tutta la fiducia, dal sostegno e dall’interesse dell’ambiente eravamo in serie A2.
Allora, per chi non c’era o per chi quel giorno lì inseguiva un’altra chimera, ricordo che la Pallacanestro Varese era reduce da terrificante retrocessione firmata “Castigo di Theus” e da una lacerante non-promozione con una squadra di presunte “stelle” per la A2.
Così, dopo due stagioni di “stecche” sulle orecchie ci ritrovammo a coccolare e fare un tifo persino esagerato per quella Cagiva che, guidata da in panchina da un coach anticonvenzionale come Dodo Rusconi (solo un caso??) e in campo da “Zio” Arijan Komazec, vinse il campionato lanciando definitivamente Andrea Meneghin, Daniele Biganzoli, Paolo Conti, Tony Bulgheroni e compagnia.

Quindi, cercando il più possibile di evitare, allontanare, bruciare certe inquietanti analogie teniamoci stretto Johan l’Eretico, ovvero quello che, pensa te, “osa” mettere in campo solo chi si sbatte e si impegna duramente in settimana. Quello che non ha paura di offrire il quintetto a Matteo Librizzi.
Ma forse, dico forse, ormai bisogna essere coach stranieri per provare simili azzardi.

Chi, infatti, si ricorda di un tal coach Dule Vusojevic (uno dei santoni della pallacanestro mondiale) che alla guida di Pistoia si presentò a Varese lanciando in quintetto tale Matteo Soragna, allora sconosciuto, ma in seguito diventato giocatore di altissimo livello.
In sala stampa, di fronte agli sbigottiti colleghi toscani che gli chiedevano spiegazioni per questa mossa, sereno come monaco buddista, con la classica parlata italiana-serbo, rispose: “In quintetto possono giocare tutti. Pure io, adesso, e con pancia grossa, può giocare in quintetto. Non è in primi quattro-cinque minuti che tu vinci o perdi partita. Però, in quei minuti, “bambino” (Soragna ndr) fa esperienza, prende confidenza, capisce gioco, inizia a pesare “palone” e se merita e non fa “cazate” prende fiducia di suoi compagni. Poi, se lui fa bravo, se lui gioca bene come può fare, io aumenta suoi minuti di gioco”.
Anno Domini: 1998.
Allora, ne vogliamo ancora parlare?

Massimo Turconi  

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