Come anticipato nei giorni scorsi, Stefano Bettinelli non è più l’allenatore del Malcantone, squadra militante in Seconda Lega svizzera. L’allenatore classe ’62, in attesa di ufficializzare il suo approdo in una nuova realtà ticinese, si è concesso del tempo libero per riassaporare un po’ di calcio nostrano. Domenica scorsa, infatti, era presente allo stadio di Venegono per seguire lo scontro al vertice tra Varesina e Lumezzane e per rivedere qualcuno dei ragazzi che ha avuto modo di lanciare durante le sue precedenti esperienze. Occasione imperdibile per una chiacchierata con il mister, ripercorrendo le tappe della sua lunga carriera da calciatore prima e allenatore poi, con un unico comun denominatore: l’amore viscerale per il Varese.

Mister, una domenica di ricordi per te: torni a Venegono, dove hai allenato nel 2018, e rivedi alcuni dei tuoi ex calciatori.
“Una bella sensazione. Alla Varesina sono rimasto circa due mesi, le cose non funzionarono ma sono comunque riuscito a trarre il meglio da quell’esperienza. È stato un periodo molto intenso, c’erano delle aspettative che non siamo riusciti a soddisfare e, di conseguenza, il rapporto si è poi interrotto. Concedimi di dire, però, che è stata una separazione molto garbata ed elegante: c’è stato grande rispetto tra le parti. Torno quindi volentieri qui, cogliendo l’occasione per vedere volti per me cari. Luca Forte, adesso al Lumezzane, ad esempio è stato mio giocatore sia in Primavera che in Prima Squadra in quel Varese che giocava in Serie B. Sono legato a tutti i ragazzi, gli allenatori e le persone con i quali ho avuto modo di lavorare”.

Prima di immergerci nel lungo capitolo riservato al Varese, facciamo un tuffo ancor più nel passato. Quando e dove comincia la storia tra Stefano Bettinelli e il calcio?
“Io sono originario di Milano e la mia esperienza cominciò nella Vercellese, zona Ovest della città. All’epoca, ti parlo degli anni ’70, il Varese attinse più volte da quella squadra per via della conoscenza comune con Mario Grotto, che era il responsabile del settore giovanile dei biancorossi. Il mio allenatore chiese a Grotto di prendermi in squadra e lui accettò, così a 16 anni mi trasferii all’ombra del Sacro Monte. Al mio primo anno fui dirottato nel Bosto, poiché la rosa era già completa, ma a partire dalla stagione successiva rimasi al Varese in pianta stabile”.

Ed è scoppiata la passione biancorossa.
“È stato ed è ancora un amore incondizionato. Feci la trafila delle giovanili arrivando ad allenarmi regolarmente con la rosa allenata da mister Fascetti, anche se, ahimè, il debutto in Prima Squadra non ci fu mai. Era un Varese forte, fatto di giovani talenti e pedine di grande esperienza, ma non c’era spazio per me e come tanti ragazzi promettenti mi vennero proposte diverse destinazioni nelle quali avrei potuto farmi le ossa. Arrivarono offerte dal Sud Italia, ma non volevo allontanarmi da casa, e così accettai l’offerta del Mendrisio, sempre grazie all’intermediazione di Mario Grotto. All’epoca i Momò giocavano in Serie B e devo ammettere che all’inizio ero un po’ titubante, ma alla fine rimasi per sette fantastici anni. Proprio in Ticino ho chiuso la mia carriera a 28 anni, anche perché in quel periodo ero entrato nel mondo del lavoro e iniziavo ad avere qualche acciacco fisico”.

Lavori, ti sposi, nasce tuo figlio e credi chiuso il tuo personale capitolo con il calcio: e invece…
“E invece succede che mio figlio comincia a giocare a calcio a Gazzada, non sotto mia spinta, ci tengo a precisarlo. Sono sempre stato un semplice genitore che segue sportivamente il figlio, rimanendo sempre esterno rispetto alle sue scelte e alle dinamiche della società. Crescendo, arriva a giocare nella categoria Giovanissimi e l’allenatore deve lasciare l’incarico per motivi lavorativi. Lo staff e i genitori, conoscendo il mio passato, hanno spinto affinché prendessi in mano la squadra, ma non sapevo neanche da dove cominciare! (ride, ndr) Alla fine mi sono lasciato convincere, ed è stata una vera folgorazione: in quel momento ho capito che quella sarebbe stata la mia vita”.

Due anni con i Giovanissimi del Gazzada ed ecco la chiamata nel Varese 1910.
“Esattamente. Grazie all’amicizia con Silvio Papini e Sean Sogliano, ho avuto l’opportunità di tornare a casa, in un ambiente rinnovato dopo il fallimento del 2004. Posso dire di essere uno dei pochissimi, se non l’unico, ad aver attraversato tutte le tappe del Varese 1910: ho allenato la Beretti, gli Allievi Nazionali, la Primavera, sono stato vice allenatore tra Serie C e B e infine ho preso in mano la squadra in B e in D. Praticamente, ho la maglia biancorossa tatuata sul petto. Quanti ricordi e quante gioie, anche le situazioni negative per me diventavano positive, avendo vissuto una vera favola personale. Arrivare ad allenare la squadra della propria città e farlo in Serie B, dopo appena una decina d’anni dal mio debutto, è stato un sogno ad occhi aperti. Mi reputo una persona davvero fortunata, certi treni non passano tutti i giorni ma è anche importante farsi trovare in stazione”.

Tra tutte le formazioni che hai avuto modo di allenare, ce n’è una a cui sei particolarmente legato?
“Può sembrare strano, ma tutte mi hanno dato tanto. Ho avuto modo di lavorare con personaggi importanti, che hanno saputo aprirmi un mondo intero dal punto di vista calcistico. Senza dubbio, aver lavorato come vice è stato fondamentale per me e ricordo con affetto quegli anni, anche perché sono combaciati con periodi vincenti. Probabilmente il mese più eccitante della mia vita è stato nel 2014, quando a maggio sono subentrato a Stefano Sottili: passare dall’essere quasi disoccupato a diventare il salvatore della patria, è stato incredibile. La stagione precedente alla guida della Primavera è stata anch’essa ricca di soddisfazioni. Nel 2012-2013 ho allenato un gruppo di ragazzi che, come me, inseguiva un sogno e fortunatamente ho ritrovato qualcuno di loro in Prima Squadra nei due anni successivi. In tanti hanno avuto modo di esordire sotto la mia gestione e questo mi gratifica molto”.

La stagione 2014-2015 è coincisa con il terzo fallimento societario, evidente già dal mese di febbraio ma con più di tre mesi di campionato ancora da disputare. Com’è stato gestire un gruppo di giocatori senza stimoli e senza stipendio?
“Facendo capire loro che non avevano colpe sulla situazione finanziaria della società. È stato fondamentale non lasciarli soli, ma accompagnandoli verso una fine dignitosa, perché quello erano: ragazzi con grande dignità. Dovevano dimostrare di non essere mercenari, ma di avere tutta la volontà di onorare la maglia che indossavano, per amor proprio e della città. Hanno subìto tanti attacchi mediatici che non meritavano, perciò era importante rispondere con la passione che li ha portati a inseguire quel sogno. Non è facile avere la forza di andare avanti nonostante delle mensilità non pagate: quei ragazzi si guadagnavano la pagnotta, non c’erano mica gli stipendi di Cristiano Ronaldo. Per quella maglia avrei fatto qualsiasi, ho cercato di trasmettere loro tutto l’amore che provo per quei colori e per ciò che rappresentano”.

C’è qualche calciatore al quale sei rimasto particolarmente affezionato?
“Avrò visto passare almeno trecento ragazzi, non li ho mai contati, ma tutti hanno saputo lasciarmi qualcosa. Facendo dei nomi farei sicuramente torto a qualcun altro, perciò preferisco non nominare nessuno, ma posso garantirti che ho un bel ricordo di tutti. Un calciatore è un uomo, ogni uomo è una storia e, nel mio piccolo, ho sempre cercato di legarmi a quelle storie di vita. La soddisfazione più grande è stata quella di averli aiutati a realizzare il loro sogno”.

Nel 2017 torni brevemente sulla panchina del Varese in Serie D e successivamente, come detto, alleni per pochi mesi la Varesina prima del tuo secondo approdo a Mendrisio, che di fatto riapre il tuo personale capitolo svizzero.
“Dopo l’esperienza a Venegono sono stato contattato dal presidente del Mendrisio, che è stato mio compagno di squadra all’epoca, chiedendomi la disponibilità di prendere in mano una squadra che viveva un momento difficile. Avevano raccolto tre punti in tredici partite, perciò avevano bisogno di un miracolo. Ho accettato e ho cercato di aiutarli, ma alla fine non ce l’abbiamo fatta a salvarci, nonostante ci siamo andati molto vicini. Chiusa quell’esperienza a fine stagione, nel 2020 sono andato ad allenare al Malcantone: due anni decisamente positivi, ma esperienza dalla quale non si poteva più chiedere nulla. Non c’erano più i presupposti per continuare assieme, perciò abbiamo rescisso in maniera pacifica”.

Ora sappiamo che sei in attesa di firmare per un’altra squadra ticinese, se arrivasse un’offerta dall’Italia accetteresti?
“Io mi trovo benissimo qui in Svizzera e la volontà è quella di restare: il lavoro svolto in questi anni ha destato interesse e ho già un accordo di base con un club locale. Se in questo frangente dovessero arrivare offerte concrete dall’Italia le valuterei, ma la mia intenzione è chiara. Ad ogni modo, non penso di essere al capolinea della mia carriera da allenatore, sebbene abbia realizzato i miei sogni. Aver allenato nel Varese per tutti quegli anni è stato il coronamento di un percorso bellissimo. Una volta negli spogliatoi scrissi questa frase: “Avevo un sogno e l’ho trasformato in realtà; ho preso questa realtà e l’ho trasformata in un sogno“. Credo basti a far capire l’amore che provo per il Varese”.

Dario Primerano

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