Ci sono momenti che restano indelebilmente scolpiti nel cuore di chi li ha sognati, inseguiti e vissuti. L’immagine di Andrea Vanetti che, con gli occhi lucidi, alza la Coppa Italia al cielo nella sua Varese davanti al suo pubblico resterà scolpita per sempre nella storia sportiva della città. “Quando Drolet ha toccato quel disco dopo l’ingaggio spedendolo oltre la blu in zona Franchini – ricorda commosso il capitano – ho afferrato il braccio di Edo (Raimondi, ndr) accanto a me e ho iniziato a saltare come un pazzo accompagnando la pattinata di Marco fino alla gabbia vuota. È stato un delirio, una figata pazzesca: ci siamo messi a piangere, ad abbracciarci e ad urlare che sì, ce l’avevamo fatta, avevamo vinto la Coppa!”.

Raimondi ha detto che per imparare a vincere bisogna imparare a perdere e che questo successo nasce da molto lontano: sei d’accordo?
“Come potrei non esserlo? Edo sa cosa vuol dire per noi questo successo. Nel momento in cui siamo tornati a Varese dopo il Milano ci siamo fatti una promessa: torniamo per vincere. Pian piano abbiamo ricostruito un gruppo di varesini e, pur stando a metà classifica, i tifosi si sono subito riavvicinati a noi. Nella cena del 17 aprile 2019 al Volo a Vela ecco l’altra promessa, fatta direttamente i tifosi, e voglio citare in particolar modo il “Vise” Sergio Visentin: lui e gli altri ci hanno promesso di portare quanta più gente possibile al Palaghiaccio e di ritornare a seguirci in trasferta, mentre noi in cambio avremmo riportato un trofeo a Varese. Loro hanno subito mantenuto la promessa; noi ci abbiamo messo un pochino di più, ma l’abbiamo fatto”.

Cos’hai provato a vincere da capitano?
“Essere il capitano dei Mastini comporta oneri e onori. Oneri perché le ultime due stagioni sono state davvero un inferno, ma tutta la sofferenza patita tra Como e Milano, perdendo tante, troppe, partite è stata ripagata dall’onore più grande della mia vita: vincere la Coppa Italia qui a Varese. Devo dire però che essere capitano è un onore a 360°: sento la responsabilità dell’intero gruppo, del trascinarlo nei momenti difficili, e ne abbiamo avuti tanti, del dire la parola giusta al momento giusto e anche del lasciarsi andare a momenti di gioia quando serve. Non posso che dire grazie ai Mastini per tutto ciò che mi hanno dato e, nel mio piccolo, spero di averli ripagati”. 

A inizio stagione avevi parlato di un cerchio da chiudere: possiamo dire che è chiuso?
“Sì, ma no (ride, ndr). Da un certo punto di vista posso dire di averlo chiuso, ma non sono ancora soddisfatto perché mi manca ancora un pezzettino. Non dico altro”.

A prescindere da tutto, concentriamoci solo sulla Coppa Italia, a inizio stagione c’era il sentore di star costruendo qualcosa di importante: sei d’accordo?
“L’adrenalina respirata in estate è stata qualcosa di clamoroso. Di sicuro senza il Palaghiaccio nuovo non avremmo avuto la possibilità di ospitare le Final Four, ma ci sarebbe comunque stata tantissima gente. Il merito è del lavoro svolto dalla società in sinergia con la Yop! perché sono letteralmente arrivati in qualsiasi angolo della città portando tanto entusiasmo. Mi vengono in mente le serate estive al Madera Pub con i tifosi e il crescendo di pubblico che si è registrato in stagione. Noi come squadra ci prendiamo parte del merito perché, comunque, grazie ai risultati siamo stati bravi a far appassionare tanta gente e, soprattutto, tantissimi bambini”.

So che sei particolarmente legato a questo aspetto. Perché?
“Mi rivedo proprio negli occhi dei bambini. Io, Mike, Marci, Edo e tanti altri eravamo come loro negli anni ’90 guardando i nostri idoli e, per quanto mi riguarda, essere diventato l’idolo di qualcuno, sapere che un bambino inizierà a giocare ad hockey grazie a me, mi commuove forse più dell’aver alzato un trofeo. I numeri della scuola hockey sono davvero incoraggianti e sapere di aver contribuito in maniera tangibile, ricevendo anche tanti messaggi di persone adulte che seguivano i Mastini ai tempi d’oro, ci inorgoglisce davvero tanto. Adesso però ci vuole pazienza: tra la nostra generazione e quella futura c’è un buco causato da anni difficili per l’hockey varesino. Forse ci toccherà giocare fino a cinquant’anni (ride, ndr), ma il futuro è roseo”.

Passiamo al campionato: la sconfitta di Appiano è già in archivio?
“Decisamente sì. La bravura di una squadra sta anche nel dare il giusto valore a vittorie e sconfitte. A livello scaramantico sono quasi contento: non si può sempre vincere e se proprio dobbiamo perdere è meglio farlo ora. Sabato sera non è stato nulla di allarmante. Anzi, ci godiamo i risvolti positivi rappresentati in primis da un ragazzo di diciotto anni che risponde al nome di Leo Mordenti: entrare a freddo in una partita del genere dovendo sostituire il portiere più forte del campionato (Rocco Perla, ndr), appena infortunato da un avversario, non è da tutti e Leo ha dimostrato di avere i co****** di un vero Mastino. Erlacher?  C’è poco da commentare e quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto in faccia: ci sono comportamenti che non andrebbero mai tenuti, a maggior ragione se porti una “C” sul petto. La nostra forza, comunque, sta nel non rispondere alle provocazioni anche se quando ti toccano il portiere ti girano. Risponderemo a modo nostro, sul campo, insieme a Rocco”.

Next step Pergine: cosa ne pensi delle Linci?
“La mia sorpresa più grande è stata quella di non vederli alle Final Four. Non so se magari hanno fatto super-partite solo contro di noi, ma di sicuro sono la squadra che più mi hanno impressionato: sono solidi in ogni reparto, compatti, ben allenati, forti fisicamente, sanno pattinare alla grande e hanno tanto estro offensivo. In difesa, poi, concedono poco o nulla e possono vantare un ottimo portiere del calibro di Rudy Rigoni. Sarà di sicuro una partita impegnativa: a prescindere dal risultato la nostra posizione nel Master Round è già ben salda, ma dovremo confermarci per entrare subito in clima playoff”.

A proposito di playoff: aspettative?
“Nessuna. Nel senso: per vincere devi battere ogni avversario, e di conseguenza è inutile preoccuparci ora di chi affronteremo. Siamo consapevoli dei nostri mezzi e la vera forza di questo gruppo, al di la dei valori tecnici, è l’unità dello spogliatoio: prima di essere compagni di squadra siamo amici, un’amicizia sincera che va oltre all’hockey visto che ci vediamo praticamente ogni giorno per aperitivi, cene, serate insieme e quant’altro. Con un gruppo del genere si può fare qualsiasi cosa, ma in primis bisogna essere umili e operai. Cosa che, fortunatamente, siamo”.

Sai già qual è l’ultima domanda.
“Ovvio, e mi sarei stupito del contrario (sorride, ndr). I nostri tifosi sono davvero unici, credimi, mi viene la pelle d’oca a parlarne: quello che stanno facendo supera le prestazioni della squadra perché il calore e l’affetto che ci stanno regalando sono semplicemente stratosferici. Mai mi sarei sognato una cosa del genere. In trasferta ci sembra di giocare in casa e quando siamo qui (dalla sedia del bar si volta indicando la pista, ndr) ci rendiamo conto che ogni angolo del Palaghiaccio è tinto di giallonero. Varese ha vissuto al buio per troppo tempo: adesso che la luce è accesa non vogliamo più spegnerla”.

Matteo Carraro

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