C’è sempre un momento di una stagione in cui una squadra è chiamata a dare un segnale. E’ così perché, per quanto magari non lo si voglia vedere o non ci si voglia credere, le partite spartiacque di un’annata esistono e in maniera indefinibile cambiano le sorti di tutta una stagione.

La Pallacanestro Varese di questi momenti ne ha vissuti due nell’arco di meno di una settimana: dopo la sconfitta con Tortona e adesso con il successo con Brindisi. Due partite che hanno forse segnato un prima ed un dopo di questa stagione targata OJM, perché in Puglia c’è stato quel salto di qualità nel momento della verità che tutti si uspicavano ma che era così difficile da poter mettere in pratica.

La vittoria contro l’Happy Casa non è stata solo netta dal punto di vista tecnico e tattico sul parquet, quanto mentale nella gestione di una partita assolutamente non scontata e che i biancorossi hanno reso così semplice da lasciare spiazzati. Lo hanno fatto dando dimostrazione di poter fare quello che nessuno pensava fosse in grado di mettere in campo, perfino gli stessi addetti ai lavori, ovvero gestire il vantaggio accumulato nel corso della partita, viaggiando a velocità di crociera come forse mai aveva fatto in questa stagione.

Un pilota automatico innestato senza snaturarsi ma puntando sulle proprie qualità e caratteristiche, che hanno portato all’estremo la forza di una Brindisi dilaniata dalla velocità, dall’intensità e dalla potenza di fuoco biancorossa. Una Varese che scopre a Brindisi il primo vero Tariq Owens della stagione, che ritrova la solidità di Caruso, che vola sulle ali della qualità di Ross e Brown e che chiude i conti con le giocate di un sempre più costante Woldetensae e di un ritrovato Johnson.

Una serata perfetta che regala il traguardo delle Final Eight di Coppa Italia dopo la stagione 2018-2019, ultima apparizione biancorossa nella manifestazione, che vuol dire primo salto in avanti della nuova gestione Scola, che vuole riportare Varese dove merita. A giocarsi gare che valgono un trofeo, a fare innamorare un popolo che vive di pallacanestro, ad insegnare, o meglio, cercare di trasmettere una cultura di basket totalmente al di fuori degli schemi nostrani e che proprio per questo è tanto indecifrabile a volte quanto maledettamente spettacolare ed efficace.

Ed allora davanti a tutto questo non si può fare altro che alzarsi in piedi ed applaudire un gruppo, società compresa, che ha saputo, in pochi mesi, pur con tutti i suoi difetti, riportare quell’entusiasmo e quella adrenalina che negli ultimi anni erano rimasti sopiti sotto la paura di retrocedere. Una squadra che ora si va a giocare il proprio meritato premio sapendo di essere la mina vagante che nessuno vuole incontrare, con l’ambizione, la fame e la spregiudicatezza di chi vuol provare a scrivere un capitolo di storia possibile solo dando continuità a quel saltto di qualità messo in campo nel momento della verità.

Ah, tutto questo ieri fatto senza Reyes, giusto per ricordarlo.

Alessandro Burin

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