Si inizia tutti così: un pallone, uno spazio in cui giocare e due porte spesso ricavate alla bell’e meglio. Non importa se nel giardino di casa, in un cortile o in oratorio, perché qualunque luogo diventa quello giusto per coltivare il sogno di giocare nei migliori campionati, negli stadi più iconici e affiancati da grandi campioni. A volte la realtà è in grado di superare l’immaginazione, specie se si hanno la bravura e la fortuna di passare ai palcoscenici più prestigiosi dopo anni di gavetta nelle serie inferiori. E se può essere vero, citando i Negrita, che “La vita è un gioco e noi siamo tessere di un mosaico geniale”, allora la carriera di Alessandro Bernardini può definirsi un’emozionante commistione di eventi.

Dagli inizi col Verbania in Eccellenza al debutto in Coppa Italia con la maglia del Parma nel giro di soli due anni (Parma-Inter 0-1, 30 novembre 2005, ndr), il difensore di Domodossola ha saputo rendere memorabile la sua esperienza nel Varese, entrando nel cuore dei tifosi biancorossi: “Orgoglioso di quel gol promozione contro il Sudtirol nel 2009, l’arrivo di Sannino ci compattò e noi rendemmo quella stagione un trionfo assoluto”.

Oggi il Sudtirol si gioca i playoff in Serie B, ma quattordici anni fa, più precisamente il 10 maggio del 2009, vi affrontavate in C2 in una sfida che è entrata nella storia dei biancorossi. Che ricordi hai di quella partita e di quell’annata?
“Iniziammo il campionato e dopo cinque giornate ci ritrovammo ad essere praticamente ultimi, poi l’arrivo di mister Sannino rappresentò una vera e propria svolta. Scoprimmo di essere un gruppo fantastico partita dopo partita, passando dal fondo della classifica alla lotta promozione; personalmente, era la prima volta che mi sentivo parte di una rosa così affiatata. Facemmo una cavalcata tale da pensare di aver quasi raggiunto l’obiettivo finale, ma qualche punto perso a ridosso della fine del torneo rimise tutto in discussione, favorendo la rimonta dell’Alessandria. Alla penultima giornata a Bolzano contro il Sudtirol andammo sotto 1-0 mentre i piemontesi ribaltarono la partita a Montichiari poco prima del novantesimo. Fu una montagna russa di emozioni che si risolse nel migliore dei modi per noi, con quel gol all’ultimo minuto che ci riportò in testa e ci permise di consolidare il primato. Quella rete impressa nella storia del Varese mi rende orgoglioso”.

Si può dire che quel tuo gol aprì il vittorioso ciclo che portò i biancorossi fino ai playoff di Serie B.
“Durante quella stagione e per metà di quella successiva giocai praticamente sempre, perciò sento mia quella cavalcata nonostante saltai gli ultimi sei mesi poiché mi trasferii in Serie A con la maglia del Livorno. A distanza di anni, probabilmente viene ricordata maggiormente la mia rete piuttosto che la doppietta di Buzzegoli ai playoff dell’anno successivo. La gente conserva un gran ricordo di quella stagione perché in C2 nessuno si aspettava che saremmo risorti in una maniera così sorprendente, mentre la stagione seguente partimmo fin da subito col piede giusto, vincendo tutte le partite casalinghe nel girone d’andata e stazionando nella zona alta della classifica”.

L’arrivo di Giuseppe Sannino mischiò le carte in tavola: cosa fece di speciale per farvi cambiare marcia?
“Sicuramente la bravura dell’allenatore contò tanto, ma penso che la presenza e la sintonia poi raggiunta con l’asset societario e in particolare con Sean Sogliano fu la vera chiave di volta: due figure forti che sapevano compensarsi per il bene della squadra. Inoltre il nostro organico era perfetto per giocare il 4-4-2 che il mister voleva esprimere, tanto per caratteristiche tecnico-tattiche quanto per atteggiamento mostrato verso le idee di Sannino. Eravamo un tutt’uno con lui, nessuno di noi avrebbe mai messo in dubbio i suoi dettami perché ci credevamo fortemente, situazione che non mi è capitato di trovare così spesso nelle mie successive esperienze”.

Ripercorriamo brevemente i tuoi passi: fino al 2008 giochi in Serie D con il Borgomanero, per un anno e mezzo vesti la maglia del Varese e nel gennaio 2010 arriva la chiamata del Livorno in Serie A.  Praticamente fai un salto di qualità impressionante in soli due anni, come hai vissuto quel passaggio di categoria?
“La mia esperienza in biancorosso fu molto positiva e di conseguenza si creò parecchio mercato attorno a me. Il Varese, dal canto suo, aveva bisogno di monetizzare e il sistema di Sannino funzionava talmente bene che trovando un sostituto, la difesa avrebbe comunque retto tranquillamente. Quando si concretizzò la possibilità di trasferimento al Livorno, sia io che la società la cogliemmo al volo, ma devo dire che l’ambientamento in Toscana non fu facile. Arrivai in un momento in cui la squadra versava sul fondo della classifica e la piazza dimostrava senza particolari remore la propria delusione; oltre a ciò, mi ruppi il menisco all’esordio in campionato contro il Siena, giocando poi solo le ultime quattro giornate quando ormai eravamo già retrocessi”.

Sempre nel 2010 partecipi alla tournee estiva della Juventus.
“Esatto, in quegli anni squadre come Milan, Inter e Juve selezionavano i migliori giovani del panorama italiano e li aggregavano alla prima squadra per prendere parte alla preparazione e ai relativi tornei: era un metodo per osservarli da vicino oppure semplicemente per fare numero, proprio come successo durante quell’estate poiché erano in svolgimento i Mondiali in Sudafrica e molti componenti della rosa erano impegnati con le rispettive nazionali. Ricordo che, oltre a me, i bianconeri pescarono Simone Padoin dall’Atalanta, che giusto due anni dopo sarebbe arrivato a Torino a titolo definitivo. Fu una bellissima esperienza, ebbi il privilegio di stare al fianco di grandi campioni quali Del Piero, Trezeguet, Diego e un giovane Antonio Candreva. Quell’anno capii quanto il calcio possa essere veloce ed effimero, con situazioni che possono cambiare repentinamente sia nel bene che nel male. Fortunatamente mi trovai in poco tempo dai campi della Serie D a vestire la maglia della Vecchia Signora seppur in prestito”.

Torni poi a Livorno e diventi il perno di quella squadra che nel 2013 conquista una meritata promozione, ma l’anno precedente vive il momento più tragico della storia amaranto: la morte di Piermario Morosini.
“Le prime due stagioni in B furono davvero difficili, dettate da risultati molto altalenanti e talvolta deludenti nonostante la qualità della rosa. In particolare l’annata 2011-2012 si rivelò più difficoltosa di quanto preventivato a inizio campionato perché non riuscivamo a portare a casa risultati soddisfacenti. Ad aprile poi avvenne la tragedia di Pescara, che ci creò uno shock impossibile da dimenticare. Tornare alla routine e pensare che c’era un torneo da portare a termine fu complicatissimo: i media parlavano solo di quanto successo a Morosini e questo non ci aiutava a creare quel distacco necessario per trovare la forza di andare avanti. Avevamo il compito di allenarci e focalizzarci sull’obiettivo salvezza nonostante avessimo ben altro per la testa”.

Il tuo periodo livornese viene momentaneamente sospeso per passare in prestito al Chievo nella stagione 2013-2014, prima di tornare in Toscana e stabilirti poi per un quadriennio alla Salernitana, con la quale termini la carriera a soli 32 anni. Che ricordi hai del periodo campano?
“A Varese mi sono trovato molto bene e mi sono sentito apprezzato, ma Salerno è stata una piazza indimenticabile: l’accoglienza e il trattamento riservatomi sono qualcosa che mi porto dentro. Ho trascorso quattro stagioni davvero ottime dal punto di vista umano, ma sportivamente parlando solo le prime due furono positive. A partire dal 2017 ho iniziato ad accusare problemi al tendine d’Achille, il quale ha portato ad un’operazione che mi ha creato uno scompenso all’altra gamba e di conseguenza alla colonna vertebrale. La situazione era ormai compromessa e irrisolvibile, perché operare tanto alla gamba quanto alla schiena avrebbe comunque comportato ad un ritiro obbligato dal calcio giocato”.

Nell’estate 2019 smetti ufficialmente di giocare: cosa fai a partire da quel giorno?
“Quando ho chiuso la carriera da calciatore ero laureando in ingegneria, corso di studi che ho concluso e che mi ha portato da tre anni a questa parte ad essere project manager in un’azienda multinazionale. Sono contento di quel che faccio, vedo prospettive future e il lavoro è entusiasmante e sfidante allo stesso tempo, avendo trasportato gli obiettivi che avevo sul terreno di gioco nel mio ambito lavorativo. Certo, giocare a pallone era più bello (ride, ndr), ma sono contento degli stimoli che ho trovato fuori dal mondo dello sport”.

Il tuo esempio ci dà la dimostrazione di quanto siano sempre di più gli atleti che si impegnano negli studi per crearsi un futuro alternativo al calcio e allo sport in generale.
“Sono dell’idea che la digitalizzazione abbia aiutato moltissimo in questo senso: poter seguire lezioni ed esami per via telematica ha permesso agli studenti di non presentarsi mai in sede, riuscendo quindi a trovare il tempo sia per studiare che per proseguire con la carriera sportiva parallela. Ritengo che chi non fa nulla per crearsi una valida opportunità alternativa, corre un grosso rischio. A differenza della maggior parte degli stipendi percepiti mediamente in Serie A, nei campionati sottostanti le paghe sono tali da non poter alzare troppo l’asticella in termini di tenore di vita. Oltre a ciò, penso sia davvero importante capire in anticipo cosa voler fare della propria vita una volta concluso il capitolo sportivo”.

A giudicare dalle tue parole sembri molto sicuro di te e delle scelte che hai fatto, pertanto la domanda sorge spontanea: hai dei rimpianti?
“Sicuramente se avessi giocato meglio nella stagione che feci in prestito al Chievo in Serie A e loro mi avessero riscattato, si sarebbe creato uno scenario differente per me, trovando magari un contratto con qualche società della massima serie. Non ho rimpianti sul mio operato perché penso di aver dato sempre il massimo, ma sull’andamento di alcuni eventi si”.

L’emozione più bella che hai vissuto invece?
“La promozione in Serie A con il Livorno è stata esaltante: arrivare a giocarsi la finale playoff nella nostra città e gioire con i nostri tifosi dopo aver toccato il fondo, è stato davvero gratificante”.

Qual è il sogno di Alessandro Bernardini oggi?
“L’obiettivo è quello di avere una vita tranquilla, una bella famiglia e un lavoro soddisfacente. Non sono più alla ricerca della grande scalata come quando giocavo, mi piacerebbe piuttosto raggiungere una certa serenità lavorativa”.

Dario Primerano

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