Piaccia o non piaccia Corrado Cotta è così: diretto. Quello che deve dire te lo dice in faccia e non si fa problemi ad assumersi responsabilità: “Potevamo fare meglio? Certo che sì, ma potevamo fare anche peggio. Siamo dove dovevamo essere, anche se ritengo che ci manchino tre punti”.

Così, al termine della vittoria in extremis sul Gozzano, il tecnico biancorosso ha commentato il girone d’andata del suo Varese, una piazza di cui l’allenatore classe ’64 conosce il peso: “Sono grato al direttore Raineri e al patron Rosati per avermi scelto perché una piazza come Varese, a questo punto del mio percorso in panchina, è l’opportunità giusta. Il progetto è serio e punta al salto nel professionismo il prima possibile: sapevamo che questa stagione non sarebbe stata facile, ma ci siamo anche noi”.

Se il Varese non dovesse vincere il Girone A di Serie D sarebbe un fallimento?
“No. O meglio, i fallimenti sono altri: qualora il Varese non dovesse vincere bisognerà analizzare come l’ha perso o come non l’ha vinto. La summa della nostra annata si potrà e si dovrà tirare solo alla fine. Per vincere un campionato non basta mettersi a tavolino e prendere i più forti, ma bisogna incastrare una serie di fattori che non sempre dipendono da te. La Reggina non vincerà il campionato, perché? Perché hanno fatto tutto ciò che dovevano fare costruendo una super squadra nel giro di pochissimo, ma se davanti ti trovi Trapani, Siracusa e Vibonese, che da anni programmano il salto nel professionismo, non puoi fare nulla. Noi, come le Bustecche, siamo un cantiere aperto: ci vuole un pizzico di pazienza in Serie D, una categoria che, tra le altre cose, ti impone di far giocare quattro under e ci sarà sempre chi è più pronto e chi meno pronto di altri. Personalmente ho ragazzi in gamba, ma alcuni di loro riescono a rendere maggiormente se la scia di squadra è positiva, altrimenti vanno aspettati”.

Percorso e programmazione: quanto le vicissitudini della scorsa estate hanno influito in questo senso?
“Faccio subito i miei complimenti al direttore perché è stato davvero bravo e ha avuto la giusta pazienza per costruire una squadra importante: sono arrivato in Serie D, ci siamo ritrovati in Eccellenza e siamo stati ripescati in Serie D solo il 4 agosto. La programmazione c’era fin dal principio, ma è normale che alcuni giocatori facciano le loro scelte: un obiettivo su tutti, Vitofrancesco, lo abbiamo preso e lui non ha mai dubitato, altri sono invece arrivati in un secondo momento e altri ancora hanno preferito destinazioni diverse. Il gruppo nuovo si è assimilato in fretta, anche se alcuni giocatori hanno dovuto prendere coscienza di un ambiente come Varese: le aspettative sono altissime e la pressione non manca”.

Nella tua carriera hai avuto modo di confrontarti con piazze importanti: cosa cambia a Varese?
“Premetto che sono arrivato a Varese in un’età che mi permette di filtrare tante cose per rasserenare la squadra. In una piazza così prestigiosa non va mai bene nulla, anche se vinci avresti dovuto vincere meglio, ma va bene così ed è dannatamente stimolante: mi piace questo “duello”. Piazze come Bari, Andria o Chieti vivono letteralmente di calcio ogni giorno: lì sì che avverti una pressione vera. Non faccio nomi per rispetto, ma in alcuni posti non ti viene permesso di lavorare al meglio… Varese è diversa. Prima ho impropriamente usato il termine pressione: Varese ti dà un senso di responsabilità, perché si vive il risultato della domenica ma ti lascia il tempo e la serenità per lavorare in settimana”.

Come lavori in settimana? Tradotto: come hai avuto modo di cambiare il tuo approccio da allenatore nel corso degli anni?
“Metodologia e preparazione sono alla base di tutto perché il calcio è ormai qualcosa difficile da delineare. Prima era tecnica, poi si è trasformato in tattica, dopo ancora è diventato fisico e al giorno d’oggi è mediatico. La comunicazione è cambiata tanto rispetto a quando ero ragazzo: se il mister diceva una cosa era quella. Oggi, tra genitori e procuratori, se sbagli l’approccio con quelli più giovani sei finito. In rosa ho padri di famiglia e adolescenti: bisogna capire le diverse teste, esigenze e situazioni. Da giocatore scarso qual ero ho sempre messo il rispetto e l’educazione prima di tutto: bisogna prendere consapevolezza delle proprie qualità e dei propri limiti prima di scaricare le responsabilità sugli altri. Oggi è invece quasi tutto dovuto, e lo spirito di sacrificio latita. Questo è un discorso generale, ovviamente, perché per fortuna non ho di questi problemi al Varese dove tutti condividono la mia visione”.

Qual è, dunque, la tua visione del calcio?
“Una visione a 360° che parte alla base di tutto: i bambini devono trovare istruttori che abbiano la passione e la voglia di insegnare. Poi, una volta formati, spetta all’allenatore farli migliorare in base a quelle che sono le loro qualità: c’è chi ha difficoltà a livello comunicativo, chi pecca in ordinazione, chi ha un fisico meno prestante e quindi bisogna lavorare affinché tutti possano dare il meglio di sé. La gente vede il prodotto finito, in partita, e giudica in base al risultato, quando invece sono i contenuti della settimana a fare la differenza. Questo pensiero non l’ho formulato io direttamente, ma l’ho preso in prestito da un certo Luciano Spalletti. Io credo si sita perdendo la capacità di valutazione dell’obiettivo: di Pulcini alle prime squadre sembra tutto uguale, ovvero conta solo vincere, ma non è così. Come nella vita ogni giorno e ogni decisione è diversa dall’altra, nel calcio devi capire le situazioni e per questo il calcio nella sua essenza è la fotografia del mio pensiero. Voglia e passione alla base di tutto: per questo Coverciano dovrebbe pensare un pochino prima di sfornare un centinaio di allenatori all’anno”.

È per questo che Vitofrancesco, al termine di un allenamento, ti ha definito uno dei migliori allenatori che abbia mai avuto?
“Quel giorno mi ha lusingato d’orgoglio, perché parliamo di un giocatore incredibile che è stato allenato da allenatori veri. Io non sono più un mister di primo pelo, penso di esser cambiato molto e migliorato: come ho detto, voglio che la squadra sia serena e se c’è qualche critica da prendere me la predo io. Vito, però, è quel tipo di giocatore che durante l’allenamento si ferma per dire ai giovani di cambiare postura, di cambiare tacchetti ed è pronto a dare una serie infinita di consigli”.

Raineri, invece, ci ha confessato di averti conosciuto parecchi anni fa durante dei tornei serali.
“Ere geologiche fa (ride, ndr). Il direttore è stato un ottimo professionista e un gran portiere, uno di quelli che ai tornei serali, oltre a portare sponsor, arrivava a raccogliere i premi; io mi fermavo molto prima. Ai nostri tempi, quando c’era ancora il telefono a gettoni, i tornei serali erano un occasione per ritrovarsi tra amici: Ernestino Ramella, ad esempio, un personaggio straordinario, l’ho conosciuto durante i tornei serali. Un po’ rimpiango quel calcio, perché era un momento di ritrovo diverso da quelli attuali; molte mie amicizie coltivate su quei campetti sono rimaste”.

E il Corrado Cotta fuori dal campo che tipo è?
“Un pantofolaio (ride ancora, ndr), almeno da quando sono a Varese: amo la mia professione, dedico la giornata al Varese e la sera mi riposo. Non amo il computer e non amo programmare troppo, né mi piace leggere i mantra che ti dà la Federazione perché un allenatore deve capire nel quotidiano di cosa ha bisogno la sua squadra. Di mio, poi, sono molto abitudinario: mi piace la compagnia degli amici, ma quando arriva il weekend mi concentro esclusivamente sulla partita perché un allenatore deve stare attento ad ogni minimo particolare, dalla stato d’animo dei giocatori al posizionamento all’intensità e a mille altri fattori”.  

Altri sport?
“La pallavolo mi piace tantissimo per un discorso strategico, mentre amo il ciclismo perché ti regala l’emozione di conoscere nuovi posti e, soprattutto, mi chiedo: ma se a uno gli si bloccano le gambe come fa? E torniamo al discorso che nel calcio troppo spesso tutto è dovuto e troppi giovani tendono a non prendersi le proprie responsabilità. Anche il tennis mi piace molto e, racconto un aneddoto, tempo fa andai a New Heaven dove ebbi l’opportunità di vedere una partita di McEnroe: non ho vergogna nel dire che non riuscivo a vedere la pallina da quanto tiravano forte. Poi non mi dispiace il basket: diciamo che tutti gli sport di squadra, posto che ognuno richiede abilità diverse, hanno un’organizzazione da cui si può prendere spunto, però il tempo è quello che è e se la domenica esco dall’Ossola con uno 0-0 non è che ho proprio voglia di andare al palazzetto o a vedere altro. Vado a casa, Aulin e butto via la testa”.

Da dove nasce invece l’amore per il Genoa?
“Il Genoa è il calcio. Marassi è lo stadio che più mi entusiasma, un impianto tipicamente inglese, e quando ci vado devo stare attento a non portare un pallone sennò mi ci butterei dentro. Il derby genovese è poi di una correttezza incredibile e l’atmosfera che genera è unica: famiglie e bambini s’incontrano in un qualcosa di culturale ed educativo. E poi c’è la Gradinata Nord… ragazzi la Gradinata Nord! Io consiglio a tutti, anche a chi non è tifoso, di andarci. Come si respira il calcio lì è qualcosa di unico, le coreografie vengono preparate con mesi di anticipo e sono occasione di ritrovo per i tifosi; la passione genoana è senza rivali”.

E, chiudiamo, nella tua vita c’è tanto spazio per la musica.
“Sono appassionato di musica in generale, e mi ritengo davvero fortunato di aver visto live parecchi concerti dei Pink Floyd, dei Rolling Stone e dei Dire Straits. La musica è un momento di relax che questo lavoro richiede e certi brani italiani sono pura poesia nonché attimi di riflessione culturale. Andate ad ascoltare la versione live di Vasco Rossi di “Gabri” o “Ritornerei” di Bruno Lauzi, la mia canzone del Varese… si vola!”.

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