Da Sud a Nord, dall’aver assaporato la Serie A e la maglia della Nazionale all’aver calcato i campi del dilettantismo con la passione, l’entusiasmo e il carisma di sempre. Ogni grande pagina di storia, però, prima o poi si deve chiudere e Vitangelo Spadavecchia è arrivato all’epilogo della sua carriera da giocatore: domenica scorsa, il portierone classe ’82 della Varesina è sceso in campo per l’ultima volta a difesa di quella porta che è stata una fida compagna per lunghi e intensi anni di una vita sportiva che, inevitabilmente, ha saputo regalargli gioie e dolori.

“È passato qualche giorno – racconta Spadavecchia – e ormai ho metabolizzato. Domenica è stata una giornata emozionate fin dal discorso pre-partita del mister e ho il dispiacere di non aver chiuso con una vittoria che sarebbe stata il giusto premio per noi, per lo staff e per la società. Alla fine, però, sono contento di aver raggiunto questa decisione di comune accordo con la società, è una scelta presa nel momento giusto e sono orgoglioso di aver chiuso la mia carriera con la maglia della Varesina”.

Quattro anni fa, al momento della firma con la Varesina, avevi detto che l’obiettivo era quello di riportare la società in Serie D. Obiettivo riuscito e, al netto del calo delle ultime partite, la stagione del ritorno nella massima categoria dilettantistica è stata assolutamente positiva.
“Nonostante le difficoltà, legate anche e soprattutto al Covid, abbiamo dovuto prorogare il ritorno della Varesina in Serie D, ma ce l’abbiamo fatta. Quest’anno l’obiettivo era la permanenza in categoria e un grande grazie va al duo Micheli-Scandola che hanno costruito una squadra importante: dispiace, per come si era messa la stagione, non aver raggiunto i playoff perché sarebbe stato un risultato straordinario. Detto questo, ci siamo tolti parecchie soddisfazioni e abbiamo disputato un bellissimo campionato. Il momento più bello? Le prime partite. Volevamo dimostrare di non essere la classica matricola e, inanellando una serie di risultati positivi, abbiamo acquisito autostima e, soprattutto, la stima degli avversari: siamo presto diventati una realtà di questo campionato in grado di arrivare in alto, cosa che non abbiamo fatto solo per nostri demeriti”.

Sappiamo che c’è un bel rapporto tra te e la Varesina: come mai?
“Semplicemente perché è una società modello, tra le migliori in ambito dilettantistico, fatta di persone vere. Ho avuto la fortuna di girare tanto a livello professionistico, ma qui a Venegono c’è un’organizzazione che ti permette di sognare: non è da tutti avere le strutture che la Varesina mette a disposizione dei suoi tesserati, dalla Prima Squadra ai Pulcini. Per il lavoro che stanno facendo sono certo che arriveranno presto nel professionismo, traguardo che meritano per la passione, la dedizione, la programmazione e la determinazione che mettono in ogni cosa che fanno”.

Non li abbiamo citati direttamente, ma il riferimento scontatissimo va alla famiglia Di Caro.
“Esatto. Anzi: la famiglia Di Caro è la famiglia della Varesina perché chiunque entri in questo mondo si sente parte integrante di qualcosa di più grande. Non a caso il mio ringraziamento va sicuramente allo staff, ai calciatori e al mister che mi hanno sopportato e supportato per questi quattro anni, ma il grazie più grande va proprio alla famiglia Di Caro che ogni giorno investe tempo, denaro e passione in questo grande progetto: mi hanno voluto credendo in me, io ho sempre creduto in loro e gli auguro ogni bene perché se lo meritano davvero”.

Cosa puoi dire alla Varesina per il futuro?
“Di continuare a fare quello che stanno facendo migliorandosi anno dopo anno, tassello dopo tassello, valorizzando il settore giovanile che è il fiore all’occhiello di questa società: tra qualche stagione saranno nel professionismo e quel giorno sarò con loro a festeggiare”.

Venendo a te, invece, che bilancio puoi trarre della tua carriera?
“Per come ho sempre ragionato, dico che potevo fare ancor meglio. Purtroppo ho attraversato un periodo buio a causa di una disgrazia ingiusta, su cui non voglio tornare, che mi ha tenuto fermo tre anni, una macchia che non dimenticherò mai e che mi ha bloccato sul più bello: per due anni di fila sono stato il miglior portiere della Lega Pro e poi mi hanno tagliato le gambe. Solo a undici anni di distanza, grazie alla mia determinazione e a quella del mio avvocato, è venuta fuori la mia innocenza… undici anni dopo. Detto questo, io tendo a guardare il lato positivo delle cose: se non avessi passato quello che ho passato forse non sarei mai arrivato al Nord e non avrei mai conosciuto la Varesina che ha saputo darmi tantissimo a livello umano prima ancora che sportivo. Non a caso, quando arrivai dissi che me ne sarei andato solo nel momento in cui avrei smesso di giocare: così è stato”.

Detto del momento più brutto, qual è stato invece il momento più bello ed entusiasmante della tua carriera?
“Sicuramente la convocazione in Under21 con la Nazionale. Ero al Torneo di Tolone con l’Under20 quando mi è stato detto che avrei partecipato all’Europeo Under21 come terzo portiere: in quella squadra c’era gente del calibro di Pirlo, Iaquinta, Maccarone, Gilardino e Caracciolo solo per fare alcuni nomi, ed è sicuramente stata un’esperienza unica, oltre che un orgoglio personale. Caracciolo? Ci siamo rivisti quest’anno e salutati come vecchi amici, ero sicuro che il suo Lumezzane avrebbe vinto il campionato perché era la squadra più forte”.

Hai avuto la fortuna e il merito di respirare il calcio a praticamente tutti i suoi livelli: cosa ti hanno lasciato le diverse esperienze?
“Purtroppo non ho mai potuto esordire davvero in Serie A, forse questo è l’unico vero rammarico che ho, ma il ricordo di oltre venti panchine nella massima divisione italiana lo porterò sempre con me. In generale, però, ogni esperienza è unica e simile al tempo stesso: dalla Serie A all’Eccellenza sono sempre sceso in campo e in allenamento con l’obiettivo di crearmi nuovi stimoli ed emozioni, ovvero la benzina che permette ad  un giocatore di vivere. Forse con un filo di presunzione posso dire che nella mia carriera ho sempre fatto bene ovunque e ho lasciato bei ricordi”.

Com’è cambiato il calcio da quando hai iniziato ad oggi?
“Di sicuro oggi viviamo un calcio più veloce in cui si verticalizza tanto e, per quanto mi riguarda, il portiere è diventato il libero di un tempo: bisogna saper giocare con i piedi e contribuire tanto alla fase difensiva quanto alla fase offensiva. Anche questo, negli ultimi anni, mi è servito come stimolo per migliorarmi, per cambiare il modo di interpretare e approcciare le partite”.

A tal proposito, cosa diresti ai portieri del domani?
“Di non badare all’estetica: il portiere forte è essenziale. Senza che tu te ne accorga deve sempre avere un 6.5/7 in pagella, stare fermo senza toccare un pallone per 90’ e compiere un intervento decisivo nel recupero. Essere essenziali, è questo che serve”.

Detto della Varesina, c’è un ringraziamento particolare che vuoi fare?
“Inevitabilmente il ringraziamento va alla mia famiglia e a mia moglie che mi sono sempre stati accanto nei momenti belli e soprattutto nei momenti brutti. Avere alle spalle una famiglia forte e unita è un fattore determinante nella vita di un giocatore e, adesso che è arrivata anche mia figlia, la mia vita è stata stravolta in meglio. Sono orgoglioso di tutti loro”.

E adesso? Che farai?
“Mi riposo (ride, ndr). Resterò sicuramente nel mondo del calcio. Mi piacerebbe fare il preparatore dei portieri, ma vediamo cosa mi riserverà il futuro nei prossimi mesi. Adesso staccherò un po’ per l’estate e poi da settembre mi rimetterò in gioco”.

Matteo Carraro

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