Il Maestro Stefano Chelazzi, dell’ASD Shigintai varesina, fresco vincitore della Cintura d’Oro a Roma e in passato allievo del Sensei Hiroshi Shirai, ci racconta l’universo del Karate tradizionale, la sua utilità per i bambini disabili e anche il corso di autodifesa femminile che svolge nella sua palestra.

In cosa consiste il premio della Cintura d’oro?
“Questa cerimonia di premiazione, su iniziativa del CONI, si svolge ogni anno a Roma all’interno del Palazzo H, un edificio del Foro Italico, che è la sede del Comitato Olimpico Nazionale Italiano. La Cintura d’Oro è una statuetta che viene assegnata ai Maestri di Arti Marziali, in riferimento alla loro abilità nel tramandare agli allievi i principi morali e filosofici di queste discipline. Nel mio caso, riguarda gli insegnamenti del Karate verso i bambini disabili e il corso di autodifesa per le donne, qualora dovessero subire delle aggressioni. Ritengo che una delle regole fondamentali del Karate sia quella che dice di impiegare gli insegnamenti solo a scopi difensivi e che non si dovrebbe mai aggredire di propria iniziativa. Mentre ero un karateka dell’allora Butoku, il mio presidente dell’epoca Elio Giacobino, mi fece svolgere il corso biennale per diventare istruttore, nel quale erano incluse anche delle nozioni di psicologia, sociologia, intervento e primo soccorso e poi svolsi anche il successivo per conseguire il titolo di Maestro. Insegniamo il Karate Shotokan e il nome del nostro dojo o palestra, Shi, gin, tai, si traduce come mente, energia interiore, e volontà”.

Come si avvicinò al Karatè?
“Iniziai a praticarlo all’età di quattordici anni. Sono stato allievo del Sensei giapponese Hiroshi Shirai, tra i più celebri nello stile Shotokan, il quale me ne insegnò i valori basilari educativi, relazionali e anche il principio dell’autocontrollo. In quest’arte marziale è importante soprattutto imparare a gestire e controllare i colpi, nel momento in cui si eseguono. Il Karatè tradizionale, Shotokan, include i tre concetti importanti di kyon o tecniche fondamentali, katà, o dimostrazioni, e kumitè o combattimento e a differenza del Karate sportivo o agonistico, si può praticare per tutta la vita. In generale la carriera agonistica di un karateka professionista ha sempre un termine, dopo essersi specializzato nella prova del Katà, oppure in quella del kumitè”.

Come quest’arte marziale può aiutare i bambini disabili?
“Sviluppando la loro autostima, quando svolgendo gli esami conseguono i diversi livelli delle cinture, tanto da sentirsi al pari dei normodotati. Il Karate migliora anche il loro autocontrollo, consolida le loro abilità relazionali e scolastiche, la loro concentrazione mentale, il loro equilibrio, ed è utile anche per quelli affetti da patologie neurologiche. Mentre svolgono i kyon o tecniche fondamentali, il Maestro dovrebbe tener conto del genere della loro disabilità, considerare sempre il loro grande impegno e alla fine valutare il loro livello di apprendimento e preparazione. Questa disciplina giova anche dal punto di vista fisico, della deambulazione e nella sincronizzazione”.

Cosa sono per voi il Katà e il Kumitè?
“Il Katà è un combattimento reale verso un’avversario immaginario e il Karatè Shotokan richiede delle sequenze con posizioni e tecniche efficaci. Un Katà è svolto correttamente solo nel momento in cui il karateka suggerisce agli osservatori l’idea di questa sfida, il principio maggiore che ne conduce ad una buona esecuzione. In questa prova ha un ruolo fondamentale soprattutto la respirazione, perché ogni Katà ne richiede una diversa, profonda e proveniente dall’Hara anziché dal naso. Nel mondo del Karate sportivo professionista, nel quale gareggiano anche la squadra della Polizia e della Guardia di Finanza, il Kumitè o combattimento regolamentato, è un momento di confronto, e anche rispetto dell’avversario e dell’arbitro, le cui decisioni sull’assegnazione dei punti sono sempre indiscutibili. In allenamento, il saluto sia all’inizio che alla fine delle lezioni, rende più coeso il gruppo di allievi”.

Secondo lei, com’è concepito il Karate dalle donne?
“Le nostre karateka sono molto diligenti e attualmente il pregiudizio sul fatto che sia un’arte marziale più adatta agli uomini è ormai superato, perché vi sono anche molte maestre e istruttrici. Sono in particolare molto contente anche del mio corso di autodifesa femminile, perché lo ritengono simile ad un Karatè revisionato e più idoneo alle nuove e possibili situazioni di pericolo, rispetto a quello tradizionale, che è più schematico”.

Qual è lo scopo del vostro corso di autodifesa femminile?
“Simuliamo delle possibili aggressioni che una donna potrebbe subire, a mano armata da coltello o da pistola. Ad esempio, nel caso del coltello, insegnamo delle tecniche che le permettano solo di disarmare l’ipotetico aggressore e favorire poi una situazione in cui lei ha la possibilità di fuggire chiedere aiuto. Nel complesso, come palestra, intendiamo rafforzarci a livello cittadino e anche crescere a livello individuale”.

Nabil Morcos

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