E’ senza dubbi un perno della Pallacanestro Varese 2024/2025, un giocatore chiamato ai Piedi del Sacro Monte per fare la differenza in campo, come nello spogliatoio.

Il curriculum, d’altronde, non mente: 2 scudetti, una Coppa Italia, la Nazionale, di cui è tornato a fare parte proprio quest’anno ed un talento di alto livello.

Di chi stiamo parlando? Di Davide Alviti, ala biancorossa, che si racconta a 360 gradi, dagli inizi ad Alatri, fino al prossimo impegno di campionato contro Reggio Emilia.

Come nasce la passione per la pallacanestro?
“In realtà più che nascere si sviluppa. L’idea di farmi giocare a pallacanestro viene ai miei genitori che mi vedono crescere più degli altri ragazzi a livello fisico in maniera esponenziale. Basti pensare che in un’estate cresco di 12-13 cm e mia mamma è costretta a cambiarmi tutti i vestiti dell’armadio (ride, ndr). L’idea vera di farmi iniziare a giocare a pallacanestro è di mio papà, che mi porta nella squadra del mio paese, Alatri, dove inizio a giocare. Ecco, si è evoluta nel tempo, non è nata come passione. Fosse stato per me, probabilmente, avrei fatto calcio come tutti i miei amici all’epoca, invece devo dire grazie ai miei genitori che hanno avuto questa intuizione che poi mi ha cambiato la vita”.

Ed è proprio ad Alatri che la sua carriera svolta, in una sconfitta contro l’Eurobasket Roma…
“Sì è vero. Quella partita perdemmo 14-101 ed io segnai tutti i punti della mia squadra. Al termine del match un osservatore di Eurobasket parlò con mio papà per portarmi a giocare da loro. Prendemmo la decisione di andare a Roma tutti insieme in famiglia, come abbiamo sempre fatto, io non sapevo bene cosa rispondere, all’epoca avevo solo 14 anni, e nonostante questo mio padre mi diede completamente carta bianca sulla scelta da fare. In famiglia abbiamo sempre preso le scelte insieme e questo ci ha portato tanti benefici, perché il dialogo ritengo sia alla base di tutto e che fa stare in piedi una famiglia sana ed infatti anche quella volta la scelta condivisa di andare a Roma fu azzeccata”.

Da come me ne parla, mi pare di capire che il suo rapporto familiare sia molto forte…
“Assolutamente sì, io mi auguro di avere una famiglia simile quando toccherà a me. E’ una cosa che costruisci nel tempo e che ti forma prima di tutto come persona e devo dire che sono molto fortunato da questo punto di vista”.

Da Roma inizia il suo girovagare per l’Italia: Mantova, Tortona, Imola, Treviso, Trieste. C’è stata una tappa più importante delle altre nella sua crescita?
“Tutte sono state molto importanti, perché ognuna di esse ha segnato indelebilmente un passaggio di crescita nella mia carriera. Il mio primo anno di A2, a Mantova, non ho giocato, avevo un secondo anno di contratto ma decisi di andare a Tortona dove trovai coach Demis Cavina, che mi prese per fare il quarto lungo. A metà stagione, però, un cambio nel roster mi permise di passare a giocare da tre su intuizione del coach e da lì la mia carriera è svoltata. Partire da 4 e ritrovarmi 3 non è stato facile ma se penso al basket che c’è oggi, fare uno o l’altro ruolo è tutt’un’altra cosa. La stagione successiva è stata quella del consolidamento nel ruolo di ala piccola per me, seguendo coach Cavina a Imola, poi l’anno dopo ho vinto l’A2 con Treviso e dopo il covid è arrivata la stagione di Trieste che mi ha portato a Milano. Ho sempre cercato di fare il passo giusto anno dopo anno”.

A Trieste incontra Marco Legovich che adesso ha ritrovato qui a Varese. Com’era il vostro rapporto e che Legovich era quello di Trieste?
“Ho ritrovato lo stesso Marco di tre anni fa. Abbiamo lo stesso rapporto di tre anni, quando parlavamo moltissimo sia di basket che non di basket, quando cercavo di coinvolgerlo nell’aiutarmi a migliorare in determinate situazioni ed è poi quello che avviene adesso. Ora abbiamo un rapporto più consolidato, ripreso dopo averlo messo in pausa post Trieste”.

Poi arriva Milano, cosa si porta da quell’avventura?
“Mi porto di tutto e la scelta che feci di andare lì la rifarei 800.000 volte. Io ho un’immagine impressa nella mente, ovvero la chiama del roster e dopo il mio nome venivano Hines e Datome. Sentirmi parte della stessa squadra di due campionissimi come loro era qualcosa di unico, un sogno. Mi tornava in mente tutto quello che aveva fatto per arrivare fin lì, credevo di sognare. Ho tanti ricordi, tante emozioni, anche negative, perché poi non giocando spesso non stai bene, però mi sono fatto le ossa. Ti alleni ogni giorno con gente come Shields, Datome, Hines, Melli, campioni che ti aiutano a crescere in campo ma anche fuori. Il livello di approccio alla vita è diverso, non perché siano migliori o peggiori delle altre persone ma perché hanno vissuto esperienze tali da comportarsi poi in una determinata maniera a fronte di certe situazioni. Sono cresciuto moltissimo sotto tutti i punti di vista, anche grazie al lavoro dei coach, che ci sarà un motivo per il quale sono lì e ti aiutano a crescere sempre più”.

E’ interessante questa risposta, perché fa capire i motivi per i quali un giocatore, soprattutto italiano, decide di andare a giocare a Milano anche con il rischio di non giocare molto…
“Purtroppo questa è una cosa astratta ma è una concezione sbagliata della scelta che ad esempio io avevo fatto. Stare in quel contesto ti forma, ti fa crescere ed è una tappa di sviluppo importantissima, o almeno, per me è stato così”.

Poi Trento ed infine Varese. E’ vero che già due stagioni fa era stato cercato dalla società?
“Si è vero, poi però avevo preso la scelta di andare a Trento, ma comunque a Varese alla fine ci sono arrivato lo stesso”.

Cosa l’ha convinta questa estate a venire qui?
“Sicuramente il progetto prospettatomi da Luis e la tipologia di gioco che mi affascina molto e ritengo elevi all’ennesima potenza le mie caratteristiche”.

Tra l’altro in questo tipo di basket torna anche a volte a fare il 4, soprattutto in difesa, mostrando tutta la sua versatilità e facendo un passo indietro a quel passato di cui mi parlava prima.
“E’ vero, ti racconto un aneddoto. Quando ero ad Eurobasket mi facevano giocare da 5 i primi tempi ed io, tornando dagli allenamenti, mi lamentavo con mio papà di questa cosa, perché avrei voluto avere più la palla in mano, tirare da fuori ecc. Mio padre, pur non avendo mai giocato a basket, mi disse di non preoccuparmi perché anche quel tipo di lavoro che stavo facendo mi avrebbe aiutato nella mia carriera ed in effetti è stato così. Ora sono un giocatore versatile che sa adattarsi alla situazione”.

L’inizio di stagione qui a Varese è stato complicato. Come un giocatore italiano riesce ad integrarsi in questo sistema soprattutto quando ci sono anche risultati non certo favorevoli?
“Non è facile. E’ un modo di fare basket lontano dalla nostra concezione europea ed italiana, però non si può dire che non sia un modello vincente, basta vedere cosa sta facendo Parigi in Eurolega quest’anno. Sicuramente, ripeto, non è semplice, però una volta che entri nell’ottica di quelle regole base del sistema e riesci ad applicare al giocato, hai la possibilità, come dicevo prima, di elevare al massimo le tue caratteristiche. Parlando di squadra, nelle ultime uscite abbiamo alzato notevolmente il nostro impatto difensivo rispetto alle prime uscite che era quasi inesistente, poi una grossa mano ce la stanno dando Sykes e Tyus, due giocatori che non hanno bisogno di presentazioni e che si stanno dando un grandissimo apporto”.

Domenica è arrivata una grandissima vittoria contro Milano al termine di una settimana complicatissima…
“Si è vero. Una settimana molto complicata psicologicamente anche perché, dopo la brutta figura di Cremona, sapevamo di andare ad affrontare una delle migliori squadre d’Europa che veniva da 6 vittorie consecutive in Eurolega e che il venerdì aveva battuto Barcellona. Nonostante tutto la chiave di volta della partita è stata la capacità che abbiamo avuto di imporre a Milano il nostro gioco, a differenza di quanto invece avevamo fatto contro Cremona dove ci eravamo lasciati trascinare dalla partita che voleva fare Cremona. Abbiamo corso, alzato il numero dei possessi ed avuto un ottimo impatto difensivo. Ora però dobbiamo capire che i due punti con Milano valgono come quelli con Cremona o con qualsiasi altra squadra e domenica dobbiamo dimostrare di essere cresciuti come squadra e non come dopo Bologna che abbiamo perso sia a Scafati che a Cremona facendo dei grossi passi indietro”.

Ecco, arriva la sfida con Reggio Emilia, che può essere un match sliding doors per la stagione, visto che finora fuori casa avete avuto molte più difficoltà che in casa…
“Senza dubbio dovremo dare una risposta importante, dimostrando di essere in crescita anche da un punto di vista caratteriale. Dobbiamo cercare d’imporre il nostro gioco come fatto domenica, non possiamo permetterci di andare sotto ritmo anche contro una squadra forte come Reggio. Poi, se mi chiedi se è un match sliding doors, io ti dico che sicuramente è importante ma che guardo anche un po’ più in là e dico che il match con Napoli è fondamentale, perché dobbiamo essere realisti, quella partita in ottica salvezza diventa cruciale”.

Alessandro Burin

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