Prima di essere un giocatore del Varese, sono un tifoso del Varese”. Affermazione spontanea, pure e semplice, condita da un sorriso, che basta di per sé a inquadrare Andrea Malinverno. Il centrocampista classe ’02 è però molto di più visto che, al di là dei discorsi sportivi, incarna in sé quell’essere varesino che scalda il cuore della tifoseria biancorossa.

E proprio per questo motivo quel sorriso che ha dato inizio alla nostra chiacchierata non è totalmente disteso, non riuscendo a mascherare interamente l’amarezza e la delusione per il pareggio di Voghera. Pur non avendo iniziato al meglio il proprio campionato, il Varese non si è certo ridimensionato né ha cambiato l’obiettivo finale. “Il bello del calcio e dello sport in generale – prosegue Malinverno – è che archiviata una partita, positiva o negativa che sia, tiri una linea e riparti focalizzandoti sul prossimo obiettivo. Martedì ci siamo ritrovati ancor più determinati, consapevoli di dover convertire in energia positiva la rabbia per non aver vinto una partita che avevamo in pugno. Quando peschi dal mazzo degli imprevisti può andarti male, l’infortunio di Molinari e l’espulsione di Priola ne sono una dimostrazione, e l’augurio è che nel corso della stagione un po’ di fortuna ci ritorni indietro”.

Mister Floris ha sottolineato come il pareggio dimostri che il Girone A sia tutt’altro che facile.
“E ha fatto bene a farlo visto che, a differenza di altri, nessuno di noi pensa di vivere la stagione come una lunga passerella verso la Serie C: ci sarà da battagliare su ogni campo perché squadre abbordabili non esistono e nessuno ti regala niente. Anzi, proprio perché ci chiamiamo Varese, gli avversari tendono a dare tutto per mettersi in mostra e sperare, perché no, proprio in una chiamata biancorossa”.  

La chiamata imminente risponde però al nome Albenga: cosa ti aspetti da sabato?
“A Voghera sono entrato qualche secondo dopo l’espulsione con l’unico obiettivo di combattere su ogni pallone, sudare e onorare la maglia. Parlo per me ma credo di non sbagliare se allargo il discorso ai miei compagni: questa è l’unica cosa che dobbiamo fare, sabato e nelle prossime partite. Sarà una battaglia perché affrontiamo una squadra insidiosa reduce da una grande vittoria, per di più contro la Sanremese, a conferma del discorso precedente sul fatto che non esistono avversari soft. Noi vogliamo partire al meglio in casa e infuocare l’Ossola per vincere insieme ai nostri tifosi”.

Tu sei sia tifoso che giocatore: come la vivi?
“Con passione e normalità, perché arrivo da una famiglia che il biancorosso ce l’ha nel sangue. Varese per noi è la vita e io sono cresciuto con questi colori vivendo l’Ossola fin da quando, nei Pulcini, seguivo con mio zio Gianmarco dai Distinti la Squadra in Serie B. Lui all’epoca aveva una piccola Yaris ed era tradizione passare per il Centro di Varese prima delle partite per respirare l’aria del sabato di Serie B, tra strade chiuse, parecchi difficili da trovare e città in fermento. Era un’emozione pazzesca, ma c’era anche molto di più”.

Ossia?
“Nei Pulcini avevo come mister Riccardo Favarin e Felice Piccoli, che tra l’altro ho reincontrato a Gavirate. Ci allenavamo nell’antistadio in sabbia e già all’epoca mi rendevo conto della posizione geografica assurda: a destra avevamo il Palazzetto, davanti a noi svettava il Sacro Monte e a sinistra vedevamo i Distinti dell’Ossola. A 6/7 anni guardavo quelle gradinate così imponenti, mi sembrava San Siro, sapendo che dalla parte opposta ci giocavano i vari Neto, Ebagua, Zecchin e Corti. Sognavo di poter un giorno essere io a calcare quel campo”.

Sogno realizzato?
“Una prima parte sì, ma senza i sogni non vai lontano e mi resta da coronare la parte più grande che si lega agli obiettivi del Varese: tornare, dopo dieci anni abbondanti di dimenticatoio, in quelle categorie in cui giocavano i miei eroi da piccolo. È il mio sogno, il sogno di tutta la città”.

Città che comunque sta riscoprendo la passione biancorossa e lo dimostra anche la presenza della Curva.
“Il calcio senza Ultras non è calcio perché l’atmosfera che creano i tifosi è semplicemente unica. Oltretutto loro fanno gli stessi sacrifici che facciamo anche noi e, tornando a Voghera, vederli cantare sotto la pioggia è qualcosa che non lascia indifferenti. Sono mossi dall’attaccamento e dalla passione, da quell’amore viscerale, che condivido, per il Varese. Peccato vederli in tribuna con i Distinti chiusi. Nei Distinti tra l’altro si respira il vero attaccamento, il vero essere varesino, e l’anno scorso, in occasione di una partita in cui ero infortunato, non ho esitato nell’andare con mio fratello proprio dove ci sedevamo da piccoli con nostro zio. Oggi vedere i Distinti così mi fa venire un po’ di tristezza e malinconia; mi auguro che la questione stadio possa sbloccarsi al più presto”.

Chi era il tuo giocatore preferito ai tempi della Serie B?
“Potrei elencarli praticamente tutti a cominciare da Corti che vestiva il numero 8, ma se devo sceglierne uno ti dico Pavoletti. Feci il raccattapalle in quel Varese-Novara valido per i playout e lo vidi segnare una doppietta in quel modo: vedere una persona che rappresenta al meglio la tua squadra del cuore non può non emozionarti. Quando giocavamo a tedesca e segnavo esultavo con la canzoncina “Pavoletti gol” (ride, ndr)”.

È per Corti il numero 8?
“No, in realtà non c’è un vero motivo. Di certo il numero 8 è quello che ti viene in mente quando pensi al classico centrocampista e mi piace che, se messo orizzontalmente, diventi l’infinito che richiama il mio amore viscerale per il Varese. Ho ereditato l’8 da Disabato e tra i miei tanti sogni c’è anche quello, forse utopistico, di vedere tra cinquanta o sessant’anni la gente di Varese pensare all’8 biancorosso come al numero di Malinverno. In generale quello che voglio è comunque lasciare un ricordo vero ai tifosi”.

Come vive la domenica la famiglia Malinverno?
“Quando si gioca in casa tutta la famiglia (Papà Enrico, mamma Rossana e i fratelli Stefano e Davide, ndr) viene allo stadio e, inevitabilmente, la settimana seguente è influenzata dall’esito della partita. La pizza della domenica sera si mangia sempre, ma se non si vince c’è un clima mesto a fare da contorno: personalmente quando perdo o pareggio rosico il triplo. Poi c’è ovviamente Rebecca, con cui sono fidanzato da tre anni: anche lei ormai è tifosissima del Varese e non si perde una partita”.

Tre anni fa, tra l’altro, tornavi a Varese. Non più settore giovanile, ma Prima Squadra…
“Esatto, e non è stato un anno facile (sorride, ndr). La squadra non girava e per uno come me, col biancorosso nel sangue, era anche difficile uscire con gli amici. Tutto andava storto e non c’era una spiegazione. Da una parte avevo coronato il sogno di vestire la maglia più bella che esiste, dall’altra mi rendevo conto che stavamo scrivendo una brutta pagina della storia del Varese: mi sentivo colpevole, i meriti e i demeriti vanno spartiti con la squadra e anche io avevo le mie responsabilità. Di certo quell’anno mi ha forgiato, ne sono uscito con una corazza che ha mi ha fortificato come persona e come giocatore”.

Sei però stato tra i pochi confermati e, ad oggi, sei a tutti gli effetti uno dei veterani della squadra.
“Quando il direttore Raineri mi chiamò la scorsa estate mi disse che in quel preciso momento il Varese avrebbe giocato in Eccellenza. Come ho detto mi sentivo responsabile di quella situazione, Varese per me è vita e non ho esitato a dire di sì: facile vantarsi di essere varesino quando le cose vanno bene, ma è quando vanno male che bisogna dimostrarlo. E, proprio per questo, quando vinceremo sarà ancora più bello. Quest’anno il direttore, il mister e Giovanni Rosati mi hanno chiesto di condividere la mia esperienza e far capire ai nuovi, giovani o esperti che siano, il peso di questa maglia. L’anno scorso non ho giocato per due mesi e non è stato facile a livello mentale, ma non ho mai mollato nulla: questa maglia richiede di saper soffrire e sfruttare le occasioni. Tutti sono entrati in punta di piedi, a prescindere dai rispettivi palmares, e il gruppo che si sta consolidando giorno dopo giorno condivide quell’unico grande obiettivo”.

Per chiudere, so che a casa tua c’è un angolo sacro…
“Molto più che sacro (ride, ndr). È il posto dove tengo tutte le mie reliquie, dai trofei vinti al gagliardetto del Varese, senza dimenticare la fascia da capitano. Ho messo la fascia per la prima volta subentrando sotto il diluvio di Alba e il match seguente, contro il PDHAE, l’ho indossata dall’inizio: per l’occasione ne ho fatta fare una speciale che trasmettesse tutta la mia varesinità ed è presto diventata il mio autentico portafortuna”.

Matteo Carraro

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