Essere l’allenatore della Pallacanestro Varese non è sicuramente un lavoro facile. Lo sa bene coach Tom Bialaszewski, sulla panchina biancorossa da quest’estate e che sta vivendo una stagione davvero intensa, con l’obiettivo di salvare la squadra biancorossa in un campionato combattutissimo.

I biancorossi, dopo un inizio di stagione complicato, si stanno riprendendo alla grande, anche grazie al doppio innesto di Mannion e Spencer che hanno cambiato la faccia della squadra. Un’esperienza di grande valore che sta formando non solo tanti giocatori alla prima esperienza in Europa ma anche lo stesso coach, che nella sua vita di avventure ne ha vissute davvero tante e che si è aperto in maniera unica, raccontandoci tanto della sua vita fino ad oggi.

Com’è stata la sua infanzia? In che tipo di famiglia è cresciuto?
“Sono cresciuto a Buffalo, ho un fratello e sono sempre stato attratto dal mondo sportivo. Dove vivevo c’era una squadra, che poi ha cambiato franchigia diventando gli attuali Clippers, ma lo sport più famoso nel contesto in cui sono cresciuto era il football americano”.

Nativo di New York, quando scopre la pallacanestro?
“Ho iniziato a giocare a basket a 13 anni. In America non c’è il minibasket, i bambini da piccoli giocano principalmente a baseball. Non ero un bravo giocatore, all’High School ero abbastanza alto e mi facevano giocare da centro. Ai miei tempi c’era Duke in grande ascesa ed ero affascinato da un giocatore come Christian Laettner, che era della zona di Buffalo e tutti i media parlavano di lui. Qualsiasi partita passasse in tv di basket me la guardavo, ero davvero patito”.

Era tifoso dei Knicks?
“No, non seguivo la NBA. I miei genitori avevano l’abbonamento per andare a vedere i Buffalo Braves, la squadra di cui prima ti parlavo che poi ha cambiato franchigia, diventando gli attuali LA Clippers e tifavo per loro”.

Quando nasce l’idea di diventare allenatore?
“Ho iniziato ad allenare a 19 anni quando ero in High School. Mi sono accorto che c’erano persone che facevano di questa passione il loro lavoro, guadagnandosi da vivere allenando e quindi mi sono impegnato sempre più per raggiungere questo obiettivo. In realtà, prima di diventare allenatore sono stato professore di storia, quindi allenare è stato anche più semplice perchè sempre di insegnamento si parla, solo che invece che storia insegnavo pallacanestro”.

Facciamo allora una piccola digressione dal basket e parliamo del suo percorso in High School, com’è andata come esperienza?
“Ho frequentato un High School molto piccola, a pochi chilometri da Buffalo, così come la prima parte del College. Avevo una grande passione per la storia e per le materie umanistiche, poi, quando sono entrato a Louisville ho iniziato a studiare Sports Management, avvicinandomi così in maniera definitiva al mondo dello sport e della pallacanestro”.

Tornando al basket, chi è stato il suo mentore che poi l’ha spinta ad allenare?
“Il mio mentore è stato Greg Collins, allenatore della squadra femminile di Louisville. Mi ha preso per mano e mi ha insegnato davvero tanto di questo lavoro. Ora lui allena Western Kentucky, sempre la squadra femminile, per me è stato sicuramente un esempio fondamentale nella mia formazione di coach”.

I primi due incarichi in NBA, a Cleveland e Sacramento però, non sono di coach ma di Video-Assistant Coordinator. Come si è cimentato in questo ruolo?
“E’ un lavoro che mi ha affascinato fin da subito, perchè c’è un grandissimo studio alla base e nella quotidianità quando lo vivi ogni giorno. Ho avuto la fortuna di confrontarmi con allenatori come Mike Malone, che poi è diventato capo allenatore NBA, coach Mike Brown ed era molto bello e formativo essere accerchiato da menti del genere da cui poter imparare davvero tanto”.

Apriamo il capitolo Lakers, è stata la sua esperienza più importante in carriera finora?
“La più importante è quella che sto vivendo adesso a Varese (sorride, ndr). Sicuramente è stata un’esperienza di vita importantissima, perchè a Los Angeles mi sono fidanzato e poi sposato con la mia attuale moglie ed ho avuto i miei bambini. Ovviamente, poi, a livello professionale, lavorando per i Lakers, ho avuto la possibilità di essere inserito in un contesto professionistico di altissimo livello. Devo dire grazie a Mike Brown che mi portò lì, dove ebbi la fortuna di conoscere allenatori come Ettore Messina, che poi avrei rincontrato in futuro, ma anche Steve Clifford e Darvin Ham. Molto cambiò, poi, con l’arrivo di Mike D’Antoni, che rivoluzionò il modo di giocare e di lavorare e che mi diede tantissima responsabilità, elevando in maniera importante il mio ruolo nel coaching staff e questo mi ha aiutato moltissimo a crescere”.

L’emozione più grande provata nell’esperienza ai Lakers?
“Sicuramente essere parte di un’organizzazione così vincente, che ha scritto la storia della NBA, in un ambiente che ti mette i brividi ogni volta che guardi la bacheca societaria, è già di per sé un’emozione indescrivibile. Se però devo trovare un episodio sportivo in particolare, dico la serie playoff contro Oklahoma. Sotto 3-1, in volo per la casa dei Thunder, sull’aereo si respirava un’aria di grandissima fiducia nei nostri mezzi e convinzione di poter ribaltare la serie. Sono cose che restano dentro, che fanno capire come una squadra vincente ancor prima che sul campo si costruisca nella testa e nonostante poi perdemmo quella serie nel 2012, il senso di valore che ebbe quel momento per me fu indimenticabile, mi fece capire davvero il livello, elevatissimo, con il quale mi stavo confrontando”.

Inutile sottolineare che lei sia conosciuto per il rapporto che strinse con Kobe Bryant, ci racconta qualcosa di questo?
“Kobe è stata una persona speciale per me. Un uomo davvero intelligente, tanto in campo quanto al di fuori dello stesso. Parlava moltissime lingue e tutte bene, la sua devozione per la pallacanestro era unica, aveva un’attenzione maniacale ai dettagli e questo ha contribuito a renderlo uno dei più grandi giocatori della storia del basket”.

Come ha vissuto la scomparsa di Bryant?
“E’ stato un momento durissimo per me. Spesso a questi grandi campioni tutti noi associamo una sorta di invincibilità, come se nulla possa mai scalfirli. Ci sentivamo spesso, ci scambiavamo tante mail ed è stato strano poi pensare come l’ultima mail scambiataci fosse riferita ad un menù di un ristorante di Milano che Kobe mi aveva consigliato. E’ stato molto triste quando sono tornato a Los Angeles l’estate successiva alla sua scomparsa senza poterlo incontrare però”.

Finisce l’avventura in America ma continua quella con la NBA in Australia, dove ricopre il ruolo di Direttore Tecnico della NBA Accademy. Che sperienza è stata?
“E’ stata un’esperienza molto bella e formativa. Ho potuto dirigere questo progetto in prima persona, un’attività che partiva da zero e andava costruita passo-passo. Ho avuto modo di lavorare a stretto contatto con ottimi coach australiani che nel corso degli anni hanno poi cresciuto buoni atleti e professionisti. Non è stata solo una bella esperienza a livello professionale, quanto anche a livello umano, ho scoperto un mondo fantastico come quello australiano, inserito in un contesto dove la natura lo fa da padrona”.

Come nasce la possibilità di andare a Milano e com’è stato il suo rapporto con Ettore Messina?
“La mia esperienza a Milano chiaramente è frutto del rapporto stretto con Ettore negli anni, prima ai Lakers e poi quando lui è tornato in NBA a San Antonio. Non ci ho pensato un attimo ad andare a Milano quando Ettore mi chiamò. Siamo due persone diverse, con età ed esperienze differenti e penso che questo sia stato utile ne nostro rapporto professionale, in quanto, vedendo le cose sotto una prospettiva diversa, ci arricchivamo a vicenda. Ognuno di noi, poi, ha il suo modo di vedere le cose, Ettore ne ha uno ben preciso e mi ha insegnato tanto, anche se poi lo stile di gioco e di basket che a me piace far giocare alle mie squadre è differente dal suo”.

A Milano stringe un rapporto forte con Luis Scola, quanto è stato importante questo per il suo arrivo a Varese, in un contesto non semplice per un coach, visto che la stragrande maggioranza della squadra era già stata costruita quando lei è arrivato a fine luglio?
“Senza dubbio il mio rapporto con Luis ha agevolato la mia scelta di accettare questo incarico. Ho seguito il percorso di Luis lontano da Milano, ci sentivamo spesso ma nonostante questo, abbiamo avuto fin da subito qui a Varese una relazione molto professionale tra Amministratore Delegato e coach e non tra due amici e questo penso sia molto importante per costruire un solido rapporto di lavoro”.

Tanti giocatori parlano di lei come un grande comunicatore. Pensa che questa sia una delle sue qualità principali come coach?
“Spero di esserlo davvero. Facendo l’allenatore avere la capacità di comunicare bene con i propri giocatori penso sia fondamentale. La cosa più importante ritengo sempre sia dire la verità, parlando in maniera molto onesta e franca con i giocatori, perchè prima ancora di essere questo sono uomini. Dire la verità paga sempre ed è una cosa su cui sto lavorando, che cerco di fare al meglio e che penso sia fondamentale poi per costruire una bella relazione con tutto il gruppo di lavoro”.

Che idea si è fatto dell’ambiente varesino dopo questi primi mesi di lavoro?
“C’è un’organizzazione di alto livello, quello che mi aveva preannunciato Luis quando ci siamo sentiti quest’estate. All’interno della nostra organizzazione ci sono tante persone che hanno a cuore questa società e che aiutano tutti a stare bene ed è una cosa importantissima questa, che si sente ancor di più nei momenti di difficoltà. Loro, così come i tifosi, che sono davvero unici”.

Ultima domanda, arriva la gara con la Virtus Bologna, un’altra corazzata dopo Venezia. Che gara si aspetta? pensa che lo spartito tattico dei bianconeri seguirà quello dei lagunari, ovvero la ricerca sistematica del post basso? Come si può controbattere a questo?
“Bologna è una squadra con grande stazza e profondità come Venezia. Potranno attaccarci in tante maniere diverse, dovremo essere bravi a reagire, sapendo che Bologna e Venezia sono ottime squadre e sono molto brave a punire ogni nostro piccolo errore. Dovremo essere bravi a fare al meglio le nostre cose, sapendo colmare quelle lacune che ancora abbiamo e questo non ci servirà solo domenica ma per tutto il campionato”.

Alessandro Burin

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