Lo aspettavo al varco, Marchino Passera. Aspettavo, in comprensibile “agguato” giornalistico, uno dei componenti del mitologico gruppo degli ” ’82ers”, splendidi ragazzi usciti dall’allora florido e super produttivo vivaio della Robur et Fides. Lo aspettavo, o meglio, l’ho aspettato per anni perché questa sorta di “Micro Highlander” proprio non si decideva mai a lucidare il classico chiodo per poi appendervi le ancor più classiche scarpe da gioco.

L’attesa è durata fino ad un paio di mesi fa, ovvero fino a quando il nostro Marco, ragazzo simpaticissimo e dotato di grande, naturale empatia, dopo 25, sì avete letto bene: venticinque anni di carriera ha finalmente deciso di smettere dicendo “Stop, game over !!” alla pallacanestro giocata.

Ma, in tempo zero, si è trasferito dal campo alla panchina e da poche settimane ha iniziato la sua nuova vita in qualità di capo allenatore della Social OSA Milano che partecipa al campionato di serie B Interregionale nel girone C. Un passaggio, quello dal parquet alla “panca” avvenuto in maniera del tutto naturale per un ragazzo (certo ha 42 anni suonati, ma il volto di Marco è sempre quello di quand’era ragazzino…) che, a ragion veduta, essendo figlio del grande Franco, si può definire doppiamente predestinato: prima come giocatore, poi come coach.

“Mi dispiace di averti fatto aspettare così a lungo ma, credimi, nemmeno nelle più rosse aspettative avrei mai pensato di poter giocare fino a 42 anni. La mia longevità cestistica è stata certamente un dono inatteso e – dice in tono quasi commosso Passera jr. -, adesso che il mio “treno” è arrivato in deposito posso dirti che me la sono proprio goduta fino all’ultima goccia, la mia carriera”.

Allora raccontiamola dall’inizio ovvero da quando il serbatoio era pieno fino all’orlo
“Come ben sai io provengo da una famiglia nella quale la pallacanestro era “religione monoteista” perché mio nonno materno, Piercarlo Monticelli, era stato giocatore, grande appassionato e ottimo dirigente, mentre Franco, mio papà, non credo abbia bisogno di presentazioni. Con la palla a spicchi inserita nel DNA non posso far altro che andare in palestra e cominciare a tirare verso canestro. Poi, visto che nel giochino fin dal primissimo contatto me la cavo abbastanza bene, ecco che da cosa nasce cosa e, insieme al gruppo dei pazzi e scatenati nati nel 1982, scodelliamo in casa Robur et Fides uno degli scudettini tricolori, categoria Allievi, più fuori pronostico, credo, nella storia della pallacanestro giovanile italiana”.

Perché fuori pronostico?
“Semplicemente perché nessuno ci filava e nelle previsioni degli addetti ai lavori le formazioni favorite per quel titolo erano altre: Virtus Bologna, Olimpia Milano, Pallacanestro Livorno e via discorrendo. Invece…”.

Invece?
“Invece in quella indimenticabile estate valtellinese,  realizziamo un incredibile miracolo cestistico e, in un crescendo di prestazioni, stati d’animo, emozioni e momenti suggestivi ci mettiamo alle spalle tutti i cosiddetti “colossi” del basket italiano. Noi, la piccola Robur Varese, piccola in tutti i sensi, anche quello fisico, saliamo sul tetto d’Italia realizzando una di quelle imprese che restano non solo nelle annate dei club, ma in quelle dello sport in generale. Una di quelle vittorie che hanno il potere, quasi magico, di unire per la vita i protagonisti e, non a caso, noi dell’82 non ci siamo mai persi di vista”.

E numerosi di voi “82ers” arrivano in prima squadra e si  ritagliano ampi spazi a livello senior
“Alla fine della stagione ’97-’98, quindi tra i 15 e i 16 anni, mio padre, dopo averci testato a lungo in allenamento rompe gli indugi e ci fa esordire in serie B buttando in campo il sottoscritto, Rovera, Gatti e Colombo. Un chiaro segnale che staff tecnico e dirigenti hanno fiducia nelle potenziali qualità del nostro gruppo che, infatti, negli anni successivi formerà la spina dorsale delle squadre R&F”.

Cosa ricordi del tuo impatto col livello senior?
“Tutto avviene in maniera abbastanza naturale un po’ perché, come noto, la Robur di quegli anni ha come compito istituzionale quello di lanciare i giovani che in squadra sono davvero numerosi. Un po’ perché avere mio padre come allenatore aiuta molto a ridurre le distanze col basket dei “grandi”. Di fatto, brucio le tappe: a 17 anni sono il cambio di Max Ferraiuolo, a 18 sono il playmaker titolare della squadra. Due anni di buonissima esperienza che, alla fine del Liceo, mi spingono a tentare la carta del professionismo, così quando coach Gigi Garelli mi chiama vado a Vigevano in serie B1 a giocare come cambio di Davide Lamma. A Vigevano, città innamorata del basket con un pubblico pazzesco per entusiasmo e calore, vivo due anni bellissimi. Il primo anno usciamo ai playoff contro Ferrara; nel secondo invece dopo aver chiuso la stagione regolare al primo posto usciamo in semifinale eliminati da Ozzano che poco settimane prima della post-season inserisce un giocatore super come Cotani che, praticamente da solo, ci “ammazza””.

Vigevano però rappresenta il tuo vero trampolino: giusto?
“Proprio così: dopo Vigevano mi trasferisco a Cremona, sempre in B1, per vivere 5 stagioni che, pur tra ovvi alti e bassi, son tutte da ricordare. Il primo anno disputiamo la finalissima ma perdiamo contro Montecatini. Il secondo partiamo per vincere, ma la squadra non gira e non combiniamo granchè. Il terzo anno, con coach Trinchieri in panca, è quello della ricostruzione dopo la delusione, mentre nel quarto disputiamo la stagione perfetta: 27 vinte, 3 perse e promozione facile in serie A2 battendo Cento, Forlì e Osimo. Il quarto anno debutto al piano di sopra e, come squadra, facciamo molto bene chiudendo al quarto posto in stagione regolare. Però nei playoff Pavia ci elimina al primo turno, ma per dovere di cronaca occorre ricordare che il nostro Keith Langford gioca la post-season con pochissima voglia avendo già entrambi i piedi sull’aereo per tornare a casa negli USA”.

L’anno dopo, 2007-2008, è quello del tuo ritorno a Varese…
“Alla fine della stagione 2007 ho un mezzo accordo con Cremona, ma davanti alla chiamata di Pallacanestro Varese e la prospettiva di giocare in A1 nella mia città, come faccio a dire: “No, grazie!” Così torno a casa per mandare in archivio la peggior stagione della mia vita e in un’annata nella quale non funziona nulla assaggio tutta l’amarezza di una vergognosa e terribile retrocessione”.

Per rinnovare, sadicamente, l’amaro: parliamone
“Ma devo proprio? – chiede timidamente Marco, pur consapevole che, sì, deve proprio -. Ok, allora, facciamoci ancora del male. Paradossalmente in quella stagione io parto molto bene, al punto che dopo 7 giornate giro a 10 punti e 5 assist di media e Carlo Recalcati, coach della Nazionale, mi convoca in azzurro. La squadra, costruita male tecnicamente e umanamente, con diversi giocatori “doppioni” e altri che mettono in mostra comportamenti non esattamente irreprensibili, non va nemmeno a spingerla. Giornata dopo giornata tutto va sempre più storto e la situazione in mezzo a un allucinante via vai di allenatori e giocatori (ben 22 ndr) diventa terribile. Poi, dal punto di vista personale tutto precipita con l’arrivo di coach Bianchini che per il ruolo di playmaker titolare sceglie Tierre Brown e io, dietro all’USA e Capin non vedo più il campo. Bhe, come finisce quell’anno se lo ricordano in tanti: retrocessione diretta già a febbraio, 8 partite vinte e 26 perse e, nella mia testa, il ricordo di personaggi assolutamente indimenticabili come i già citati Brown e Capin, Julius Hodge, Delonte Holland, Marcus Melvin, Romel Beck, Jaime Lloreda e altri ancora”.

Diciamo allora che ti sei rimesso in pari l’anno dopo, 2008-2009, quello della strabiliante vittoria in A2
“Confermo: un anno strabiliante perché, è vero, siamo stati davvero bravi ma, in tutta onestà, occorre dire che per tutta la stagione abbiamo avuto un grandissimo culo. Aspetto che, si sa, nello sport come nella vita aiuta e non poco. Infatti, in quella stagione tutto fila liscio come l’olio e noi che, ripeto, al di là dei nostri indubbi meriti, riusciamo a vincere delle partite giocando in 6: noi cinque più la Dea Bendata che gioca sempre al nostro fianco. Ho ancora davanti agli occhi il canestro segnato a tempo scaduto da Childress contro Brindisi; i triploni pazzeschi segnati sulla sirena da Cotani da metà campo e da Lollo Gergati contro Venezia, l’incredibile 0 su 2 ai liberi di Damine Ryan, uno che dalla lunetta segnava il 92% e non sbagliava mai e altri episodi che ti fanno capire una cosa: quando è il tuo anno, non ce n’è per nessuno. Buon per noi, ovvero per il sottoscritto, Gek Galanda, Ricky Antonelli e Totò Geneovese che, in qualche modo, ci riprendiamo qualcosa dopo le sofferenze patite l’anno prima”.   

E, finalmente, per te arriva la serie A1…
“Certo arriva, peccato che – puntualizza Marchino – la A1 atterri nel momento sbagliato perché, a conti fatti, se la massima serie è rappresentata dal famoso “treno”, io su quei vagoni ci sono stato per pochissimi chilometri: solo 7 partite e dopo le prime 6 mi devo fermare per seri problemi fisici, ovvero un’ernia cervicale tanto fastidiosa, quanto dolorosa. Al mio ritorno ritrovo una squadra completamente cambiata perché nel reparto guardie ci sono addirittura sei giocatori: Childress, Mc Grath, Thomas, Reynolds, io e Gergati. Ovvio che in una situazione del genere il giocatore penalizzato sono soprattutto io che, ancora adesso non ne conosco il motivo, vengo messo ai margini della squadra e relegato addirittura a far allenamento col gruppo Under 19. Tuttavia, non ho mai sollevato polemiche e penso di essermi sempre comportato da buon professionista. Così, a consuntivo e facendo una considerazione edulcorata, mi sento di affermare che la mia esperienza in A1 a Varese, nella mia città, non è stata la realizzazione del sogno che cullavo fin da quando ero bambino”.

Dopo Pallacanestro Varese inizia la tua carriera 2.0: quella in cui giri tutta l’Italia come una trottola cambiando 13 squadre  e città in 14 anni. In questo lungo e affascinante “tour” quali tappe vorresti evidenziare in giallo fluo?
“Premessa: non rinnego nessuna delle scelte fatte anche se, ovviamente, in alcune società le mie aspettative sono andate disattese. Detto questo, tra le tante bellissime esperienza tecniche e umane che ho avuto il privilegio di vivere, salvo sicuramente le fantastiche stagioni vissute a Piacenza e Brescia e, per altre ragioni, a Latina. Lasciata la Cimberio Varese firmo per Piacenza in B1 e nel team emiliano ritrovo alcuni grandissimi amici: Cazzaniga, Perego, Bolzonella, Scarone e insieme a loro il primo anno vinciamo il campionato, il secondo disputiamo un buon campionato di A2 mentre il terzo anno il club si ritira per problemi economici. Per un paio d’anni giro a vuoto tra Capo d’Orlando, Imola e Chieti ma per fortuna nel 2014 ricevo un’interessante offerta tecnica da Brescia, club che proprio in quegli anni comincia la sua grande ascesa. Con coach Diana alla guida il primo anno perdiamo contro Torino, oggettivamente fortissima, la finale per salire in A1. Il secondo anno tocca a noi essere fortissimi e, quindi, a salire nella massima serie battendo in finale la Fortitudo. .L’aver riportato Brescia nella massima serie dopo 28 anni di assenza ha rappresentato per noi protagonisti qualcosa di speciale e, passami il termine, “storico”. Poi, più o meno come successo a Varese, in A1 mi trovo di nuovo la strada sbarrata dai nuovi arrivati: i fratelli Vitali, Moss e Moore, quindi gioco poco, non mi diverto e, seppur malincuore e con qualche rammarico, dopo 2 anni e mezzo da ricordare – impressionante il muro di folla con 7000 spettatori -, lascio Brescia, riprendo a girare e scelgo Latina”.

Latina: la città delle “altre ragioni”: quali?
“Il motivo per cui colloco Latina tra le tappe del cuore è presto detto: nella città laziale conosco coach Franco Gramenzi, un allenatore che dal mio punto di vista è un genio cestistico di livello assoluto”.

Booooom: non starai esagerando? In fondo tu sei stato allenato da alcuni allenatori che appartengono alla “creme” del panorama baskettaro tricolore
“Quello che dici è giusto ma, credimi, nel caso di coach Gramenzi nulla appare esagerato perchè la sua capacità di stare “dentro” le partite e leggerne l’andamento e i possibili sviluppi è qualcosa di unico e a mio modesto avviso inimitabile. Del resto dieci campionati vinti dalla serie D alla serie A2 rappresentano un dato concreto e inequivocabile. In ogni caso considero la frequentazione con coach Gramenzi la molla decisiva che mi ha spinto ad abbracciare l’idea di allenare”. 

Un’idea talmente potente che, oggi, la panchina ti vede protagonista a diversi livelli con VBS e come capo allenatore in Social Osa Milano in serie BInterregionale
“L’avventura del “coaching” dal punto di strettamente pratico è iniziata grazie e insieme a mio “fratello” Martino Rovera col quale abbiamo dato vita a Varese Basket School, un progetto cestistico nuovissimo per la città di Varese che nel giro di un paio d’anni ha avuto una crescita esponenziale, incredibile e sicuramente inattesa. A tutt’oggi abbiamo oltre 300 bambini iscritti e, in tutta sincerità, non pensavamo di poter fare così tanto e così bene nel giro di pochissimo tempo. Gran parte del merito va certamente attribuito a Tino Rovera, un istruttore di minibasket con qualità straordinarie sia dal punto di vista tecnico, sia sotto il profilo umano, ma accanto a lui e al sottoscritto in VBS sta crescendo tantissimo in termini qualitativi la “famiglia” degli istruttorie/allenatori e, si sa, dove ci sono qualità e competenza la gente prima o poi arriva”.

E della serie BInterregionale, cosa racconti?
“La proposta per il ruolo di capo allenatore in B fatta dai dirigenti di Social Osa mi ha sorpreso e lusingato e, a quel punto, sentendo la fiducia di tutto l’ambiente milanese non potevo dire di no. Sono alla guida di una squadra “mix” tra esperienza e gioventù e sono più che soddisfatto per il lavoro svolto fin qui anche perchè abbiamo margini di miglioramento davvero ampi”.

Quanto è stato difficile essere “figlio di Franco”?
“Tanto e proprio per questo ho scelto di lasciare Varese a 19 anni per costruirmi una carriera lontano dall’ombra di mio padre al quale, però, tantissimi giovani devono un ringraziamento perché Franco, come pochi altri, ha avuto il coraggio di lanciarci nella mischia dei campionati senior portando a casa grandissimi risultati”.

Chiudiamo, come sempre, con le tue “nomination” iniziando dal compagno più forte con cui hai giocato?
“Sicuramente Keith Langford, mio compagno a Cremona. Quando era “in bolla”, quindi molto spesso, faceva cose irreali, pazzesche”.

L’avversario più forte di sempre?
“Ne scelgo due: Marques Green, un super-nano che grazie a talento e fortissima determinazione è arrivato ad essere un top anche in Eurolega e Terrell McIntyre, un altro che pur non avendo doti fisiche clamorose ha fatto il mazzo a tantissimi”

Il tuo podio delle partite indimenticabili?
“Al primo posto la gara-spareggio per salire in A1 giocata contro Veroli nella primavera del 2009. Descrivere il “dolce inferno” di Masnago e quell’atmosfera fuori da ogni immaginazione è impossibile. Al secondo e terzo posto metto le gare-playoff giocate a Brescia contro la Fortitudo e Torino. Momenti unici pure quelli”.

La tua squadra della vita?
“Per il quintetto – dice con un sorriso Marchino -, scelgo i giocatori più forti. Quindi, io come playmaker, Rovera guardia, Valenti ala piccola, Hollis ala grande, Gek Galanda come centro. Dalla panchina escono giocatori “passabili” come Childress, Langford, Moss, Lollis e Slay”.    

A chi senti di dovere qualcosa per la tua bella e lunga avventura cestistica?
“Alla mia famiglia: mamma, papà e mia sorella Martina mi hanno sempre sostenuto, consigliato, aiutato e sono stati, nei  momenti non esattamente positivi, il rifugio sicuro in cui trovare calore e affetto”.

Ultimissima domanda: c’è ancora la Pallacanestro Varese nel tuo presente?  
“Seguo Pall.Va da tifoso attraverso giornali e siti e quando mi è possibile faccio un salto a Masnago perché, è innegabile, l’atmosfera che si respira al palazzetto è sempre stupenda e riscalda il cuore a chi, come me, su quel parquet ci è nato”.

Massimo Turconi

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