C’è una Pallacanestro Varese che vive di speranza, buona volontà e propositi sempre più alti, attrattivi e fatti di prospettiva ed un’altra che da due domeniche si scontra contro una realtà ben diversa: dura, implacabile, inappuntabile.
La prima è la Pallacanestro Varese dei progetti, quelli che guardano all’extra campo, ad una crescita organica, sostenibile ed in continuo sviluppo della società, a caccia della formula perfetta per non inabissarsi in un sistema che non agevola certo l’idea di fare business visto il pochissimo ritorno economico che è in grado di generare (vedasi l’assenza quasi totale di veri e propri ricavi televisivi).
Una Pallacanestro Varese che cerca con le idee, con una struttura ormai chiara e definita, con un sistema fatto di regole ferree e di dogmi prestabiliti, di andare oltre la logica di un modello che in Italia non si è mai visto e che in Europa nessuno ancora sta attuando con tale perseveranza anche di fronte all’inappuntabile realtà. Una Pallacanestro Varese che parla di playoff, di squadra basata sulla difesa, della convinzione di poter vincere 15/16 partite in questo campionato, che chiama e chiede fiducia ad un popolo che di amore ne ha dispensato, ne dispensa e ne dispenserà sempre tantissimo, a volte anche fin troppo, per quella che più che una passione, sente come una questione personale, come qualcosa di parentale che sostieni ed a cui dai forza fino a che ne hai in corpo. Una Pallacanestro Varese che fa questo al di fuori del campo, in conferenza o, da questa settimana abbiamo imparato, anche da un divanetto (quello di una nota testata locale): comodo, preparato per un’occasione speciale, a puntino per ridare ancora più forza alla propria immagine. Per carità, ogni scelta è legittima, come lo è, però, l’analisi dopo la seconda domenica di delusione sportiva.
Sì perché, come dicevamo prima, i progetti del “divanetto”, si scontrano poi con la realtà del palazzetto, che settimana scorsa era il PalaLeonessa e che ieri è stato l’Itelyum Arena. Una realtà che parla di una squadra che in due partite ha subito 223 punti, che parla di un gruppo mentalmente fragilissimo, capace di farsi trascinare come una foglia dal vento senza riuscire ad opporre resistenza al corso della partita quando le cose vanno male; che parla di una squadra a caccia della propria identità difensiva (qualora mai la riesca a trovare) e che nel fare questo sta perdendo anche quell’impronta offensiva che quantomeno era marchio di fabbrica delle ultime due stagioni. Una squadra smarrita e che si smarrisce nei meandri di un campionato sempre più competitivo che non lascia spazio a errori; che si perde in un mercato che, ancora una volta, per la seconda stagione consecutiva, appare già pieno di errori, di scelte sbagliate e che necessità di correttivi con il grande dubbio che forse la risorsa lasciata andare via così a cuor leggero qualche qualità evidentemente ce l’aveva (ogni riferimento a Michael Arcieri è puramente casuale), visto che l’unico mercato azzeccato, ad oggi, è stato quello di due stagioni fa.
Una Pallacanestro Varese che nemmeno il tipico effetto Masnago è riuscito a rivitalizzare, che ha già riportato nei tifosi i fantasmi della passata stagione e offuscato quell’entusiasmo tipico della piazza biancorossa, portata, al di là di giudizi e considerazioni personali più che rispettabili, sempre a guardare il bicchiere mezzo pieno e mai quello mezzo vuoto, perché tutti vogliono il bene della società.
Ed allora appare netta la separazione tra la Pallacanestro Varese dei progetti del “divanetto” e quella che si scontra con la realtà dura, diretta ed inappuntabile del palazzetto, che fa suonare l’allarme, che chiama interventi immediati e diretti, che chiede la stessa visione, progettualità e prospettiva concreta che la sua anima del divanetto ha convertito in risultati concreti fuori dal campo: peccato che poi, se retrocedi, tutto il castello cade, perché alla fine l’unica cosa che conta, nello sport, sono i risultati e quelli che te li devi conquistare nella dura realtà del palazzetto, molto meno comoda ed accogliente di quella del divanetto.
Alessandro Burin