Quando si parla di Sacchetti nel mondo Pallacanestro Varese non si può rimanere indifferenti. Il grande Meo è uno degli ex giocatori più amati nel panorama cestistico biancorosso ed il fatto che la sua dinastia all’interno della società stia continuando non può fare altro che alimentare ricordi amarcord sempre cari ai tifosi della società bosina.

Così da Meo a Tommaso, oggi assistente allenatore del gruppo Under 19 e della Serie B Interregionale, oltre che supporto prezioso agli allenamenti della Prima Squadra, che è tornato nella sua Varese per crescere e continuare un percorso professionale già ricco di esperienze di un certo livello.

Sacchetti, partiamo dall’inizio, com’è stata la sua infanzia in una famiglia che aveva il basket al centro?
“Ovviamente pregna di pallacanestro. Sono nato, vissuto e cresciuto prima che nelle palestre nei campetti da basket. Quando sono nato, nel 1993, papà aveva già smesso di giocare (nel 1991) ed iniziava ad allenare mentre mio fratello Bryan iniziava a giocare. I miei primi ricordi sono legati ai camp estivi in Val Sesia a cui mio padre partecipava, da lì la lunga trafila tra gli allenamenti di mio fratello, le partite ed allenamenti di papà, poi ho iniziato a fare sul serio anche io e da lì è partito tutto. Credo che andrò avanti a fare questo fino a che morirò, perché il basket è la mia grande passione e penso che sia giusto andare avanti a coltivare i propri sogni fino alla fine”.

Che giocatore era?
“Io ero una guardia tiratrice che provava anche a difendere, a volte bene altre meno (ride, ndr). Sono arrivato a giocare fino in B Nazionale a Taranto, poi gli ultimi anni della mia carriera ho fatto la vecchia C Gold nelle squadre in cui allenava mio papà. Finite le giovanili qui a Varese l’ho seguito a Sassari tra C e Serie A, poi Lombardia, Puglia, son tornato di nuovo con mio papà a Cremona tra C e Serie A. Poi con il covid, mio papà ha iniziato ad instradarmi verso l’allenare e da lì ho iniziato con questa professione. Mio papà ha tanti pregi e difetti, però sicuramente è una persona diretta che ti dice le cose che pensa al di là che tu sia suo figlio o meno, quindi gli ho dato retta, ho iniziato facendogli da assistente alla Fortitudo, poi a Cantù, dove sono rimasto anche l’anno scorso quando l’hanno chiamato e adesso sono qui a Varese”.

Cos’ha imparato dal Meo Sacchetti allenatore al di là che sia suo padre?
“Come ti dicevo prima, la schiettezza. E’ una persona vera che ti dice le cose pane al pane, vino al vino. Questo ho notato che viene apprezzato molto dai giocatori, non faceva mai differenze, trattava tutti allo stesso modo. Poi, certamente, la capacità di leggere in anticipo le situazioni di gioco: non è mai capitato che un assistente riuscisse a fargli notare una cosa che lui non aveva già visto in precedenza”.

Un ragazzo di Varese che ha vissuto una delle prime vere esperienze professionali a Cantù, come l’ha vissuta?
“L’ho vissuta che i primi tempi a Cantù mi davano del varesino, qui quando sono arrivato le prime settimane mi dicevano canturino, quindi ho detto ragazzi mettetevi d’accordo (ride, ndr). Al di là di tutto l’ho vissuta bene, è chiaro che io sono e sempre sarò un tifoso di Varese e se mi chiedi qual è il mio sogno a livello professionale ti dico vincere lo scudetto da capo allenatore sulla panchina di Varese, poi, quando fai questo mestiere devi essere pronto ad andare dove ti chiamano e fare al meglio il tuo lavoro. A Cantù si lavora bene, è un ambiente caldo a livello di tifoseria e ben organizzato dove ho vissuto due anni importanti per la mia crescita. Rimane il rammarico per com’è finita la scorsa stagione ma è sicuramente un’esperienza che mi porterò dietro”.

Lei è cresciuto, cestisticamente, in una Varese completamente diversa da quella attuale. Come ha approcciato a questo nuovo modo di fare basket?
“Con grande fascino, ammirazione e dedizione. E’ un modo di lavorare che secondo me andrebbe seguito ovunque e non parlo di questioni tecnico-tattiche ma di modello strutturale. Se le società vogliono investire sui giovani devono seguire il modello che ha adottato oggi Varese. I ragazzi sono messi al centro, hanno la possibilità di crescere e di potersi esprimere al meglio delle loro qualità. Hanno a disposizione una struttura di primo livello come il Campus, professionisti che li seguono giorno dopo giorno, possono vivere la loro quotidianità in palestra ed è davvero un qualcosa di unico e che poi forma al massimo il ragazzo”.

Dove colloca questa tappa nel suo percorso di crescita professionale?
“Sono sincero, all’inizio ero un po’ turbato, perché comunque le mie uniche esperienze da allenatore le avevo vissute con i senior ed allenare i “grandi” non è mai come lavorare con i ragazzi. Però qui c’è un metodo di lavoro talmente meticoloso, preciso e professionale anche coni giovani che non ho assolutamente sentito il gap del passaggio da senior ad under. Quindi, certamente, sarà una tappa fondamentale nel mio percorso di crescita professionale”.

Alessandro Burin

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