
Dai monti del Trentino Alto – Adige, alle Prealpi; dalle Dolomiti al Sacro Monte; da Merano a Varese, Maximilian Ladurner di strada ne ha già fatta tantissima nella pallacanestro anche se, considerando i soli 23 anni di età, sembrerebbe strano pensarlo. Eppure è così: un’esplosione velocissima, la Serie A, l’Europa e un percorso di carriera che sembrava ormai diretto verso una certa strada. Poi il calo, l’esigenza di trovare più spazio ma non solo, soprattutto quella di trovare il proprio io cestistico passando così per la palestra dell’A2, fino alla risalita di questa stagione. Riviviamo tutto questo percorso proprio nelle parole del lungo azzurro, partendo dalla sua infanzia fino ad oggi.
Come ha vissuto la propria gioventù Max Ladurner?
“L’ho vissuta a Merano, in una famiglia contadina che viveva dei frutti della propria produzione: mele e uva in particolare. Da piccolo giocavo a calcio, poi crescendo alle scuole medie il mio insegnate di italiano, Gianluca Zampedri, che insegnava basket a Merano, mi ha portato in questo mondo e dovrò per sempre ringraziarlo per questo. Dopo tre anni sono andato a Trento dove sono rimasto 6 anni tra giovanili e Serie A2.
Prima di andare sul lato più sportivo della sua vita, rimaniamo ancora un pò nella sfera del privato: com’era vivere in un’azienda agricola immerso nella natura?
“Ciò che mi è sempre rimasto nel cuore è la tranquillità che mi dava casa mia, immersi nel verde con il vicino di casa più prossimo che si trova ad un chilometro di distanza. Da piccolo l’essere isolari era una cosa bellissima, perché avevo tantissimo spazio per giocare, scoprire la natura e coglierne gli aspetti più belli, intensi e nascosti. E’ una cosa stupenda che mi porterò sempre dietro e spero che anche i miei figli un giorno possano crescere in un contesto simile”.
Lei però ha avuto modo di raccontarmi come non le piaccia proprio camminare o scalare in montagna, una cosa particolare per chi è nato ai piedi delle Dolomiti…
“Verissimo (ride, ndr), è una cosa che odio proprio camminare per ora in montagna”.
Questo contatto con la natura, che porta ad una sorta di pace dei sensi, le è servita nel corso della sua carriera cestistica, soprattutto penso al primo periodo che ha vissuto lontano da casa?
“Assolutamente sì. Il primo anno a Trento per me è stato tostissimo: non parlavo italiano, dovevo conoscere la lingua e riuscire nel frattempo ad abituarmi ad una quotidianità lontano da casa. Questa pace interiore di cui tu parlavi mi ha aiutato a gestire con grande serenità e leggerezza il cambiamento ed è stata fondamentale per me”.
Come ha gestito la sua ascesa molto rapida nel basket senior?
“Io ho iniziato a lavorare con la Prima Squadra a 17 anni. All’inizio ero molto emozionato ma avevo anche paura: sono arrivato a Trento che ero molto scarso, cestisticamente parlando, avendo iniziato tardi a giocare, quindi quando mi hanno aggregato alla Prima Squadra per me è stato uno shock. Allo stesso tempo, però, con il passare delle settimane ho sentito sempre più fiducia ed acquisito consapevolezza, frutto poi dei risultati che avevo dal lavoro quotidiano e questo mi ha aiutato piano piano ad integrarmi sempre di più con quella realtà di vita e professionale”.
L’allenatore che l’ha segnata di più?
“Anche se mi ha allenato per poco e solo in Nazionale giovanile, dico senza dubbio Andrea Capobianco. Mi ha aiutato tantissimo a crescere in termini di consapevolezza e fiducia nei miei mezzi, oltre che da un punto di vista tecnico”.
Che organizzazione c’era nella Trento in cui arrivò lei?
“Sicuramente diversa da quella di oggi. Adesso c’è Marco Crespi che sta facendo un grandissimo lavoro, ma comunque già allora si vedeva chiaramente come i giovani venissero messi al centro ed è quello che vedo qui a Varese, dove si sta facendo un lavoro incredibile”.
Perché la scelta di fare un’esperienza in A2?
“Negli ultimi due anni in A sentivo la necessità di giocare tanto e di crescere a livello mentale, lato sul quale non mi sentivo all’altezza. Ho preso la scelta di andare in A2 proprio per questo. Alla fine, se stai in panchina non migliori: giocando fai esperienza e cresci”.
Si ricorda di quando con la maglia di Trento ha giocato contro Luis Scola?
“Mi ricordo benissimo, su Instagram ho un post di me che tiro contro Luis: non mi dimenticherò mai quel momento anche perché segnai quel tiro. Lui è da sempre un mio idolo e quella giocata mi diede grandissimo orgoglio”.
Che impressione ha avuto di Varese fin dal principio?
“Si vede tanto l’esperienza e la mano di Luis sul progetto Varese e questo l’ho percepito fin dall’inizio. La società è super, c’è grande organizzazione sotto tutti i punti di vista e questa è una cosa che tanti giocatori che hanno giocato qui mi avevano detto prima che firmassi. La stessa cosa posso dirla sulla vita extra campo: Varese è una città bellissima che un pò mi ricorda casa: dalle montagne, al lago ma soprattutto la privacy e la tranquillità che ci sono mi fanno stare bene”.
Avete avuto un inizio di stagione complicato, soprattutto in termini di mancanza di quell’identità fatta di sacrificio e difesa che vuole il coach. Perché secondo lei?
“Siamo tanti giocatori nuovi, che provengono da esperienze diverse e non è facile mettere insieme tante teste diverse in breve tempo. Al contempo, però, è vero che in alcuni momenti ci spegniamo completamente senza che nessuno capisca il motivo di fondo di questo. Dobbiamo essere più duri in difesa, perché prendendo 100 punti a partita non possiamo essere competitivi”.
Per la prima sfiderà Trento da avversario, sabato alle ore 20:00 all’Itelyum Arena: quali emozioni le suscita questa cosa?
“Sarà strano rivedere tante persone che conosco come avversari. Mi farà un effetto particolare ma voglio dare il massimo per dimostrargli quanto sono cresciuto e per aiutare Varese a vincere”.
Alessandro Burin